Allucinazioni, paure, labirinti di specchi che riflettono vite frammentate. Sette case vuote di Samanta Schweblin è, già dal titolo, un libro di racconti fatto di mancanze e disperazioni. Sette racconti per sette case, edifici asfissianti e claustrofobici. Luoghi che contengono storie. Case che vengono attraversate, modificate, case da cui spariscono oggetti e ne arrivano altri, case di genitori e figli, case con giardini di nonni che corrono nudi, case di bambini che non ci sono più e si ostinano a esserci.
“Scrisse un’altra cosa in fondo. Adesso la lista diceva:
Concentrarsi sulla morte.
Lui è morto.
La signora della casa di fianco è pericolosa.
Se non ti ricordi, aspetta.”
Sette case, ognuna popolata da una storia, da un punto di vista altro, particolare. Sette storie costruite intorno a un dettaglio indecifrabile, a un timore: che a guidarci in queste pagine sia la voce di una bambina di otto anni, di una donna in crisi o di un'anziana delirante, vi troveremo personaggi messi a confronto con l'inquietudine che si cela nel quotidiano, con paure proprie e altrui, in un gioco di specchi che punta a ribaltare ogni pregiudizio, ogni idea sicura sul concetto di normalità.
Samanta Schweblin è una delle migliori scrittrici argentine contemporanee. Uno dei suoi libri più noti è Kentuki, raccolta di racconti che parla di esserini robotici con rotelle al posto dei piedi e telecamere negli occhi, che spiano senza sosta gli esseri umani. Le sue storie entrano nel solco della tradizione artistica del suo Paese: quell’attenzione unica nel creare una letteratura fantastica che si muove però nel territorio del verosimile, dell’assurdo ma possibile, del sottile dubbio. Quel tipo di realtà immaginifica a un passo dalla fantascienza e a volte dall’horror, che già apparteneva ad esempio a Borges e a Cortázar.
In Sette case vuote lo stile chirurgico ed elegante di Samanta Schweblin delinea con pochissime frasi l’intera vita dei personaggi, le loro paure, il loro passato. Racconti che sono un dettaglio e basta allontanarsi per vedere il quadro completo. Hanno come una patina davanti, sembra di entrare in un sogno o, più spesso, in un incubo. I suoi personaggi sono smarriti, confusi, si muovono in spazi quotidiani che all’improvviso si fanno alieni.
Uno che quando ha perso il figlio e sono passata alla veglia funebre a fare un saluto mi ha stretto in un abbraccio rigido e freddo, e ha parlato qualche minuto con altri ospiti prima di tornare da me e dirmi, quasi all’orecchio: «Ho scoperto chi sono i ragazzini che rovesciano i bidoni della spazzatura. Adesso non c’è da preoccuparsene». Quel tipo d’uomo.
Sette case vuote parla delle nostre case. Di quello che nelle nostre case teniamo o buttiamo via. Di quello che nelle nostre case distruggiamo, evitiamo e dimentichiamo. Di quello che siamo, in fondo, nelle nostre case, quando nessun altro può vedere. E parla, quindi, di ognuno di noi.
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I libri di Samanta Schweblin
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| Fazi, 2010Conosci l'autore
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