Ancora oggi, a tutte le latitudini, il peso del colonialismo continua a gravare su quelle stesse comunità che hanno visto usurpate le loro terre. Le politiche colonialiste mirano a uniformarle a quello che è l’assetto della società contemporanea, quando addirittura non ne perseguono l’eliminazione.
Storia del mio breve corpo racconta in prima persona il vissuto di un ragazzo NDN (Not Dead Native) e queer nel Canada odierno. Billy-Ray Belcourt è un giovane poeta che appartiene alla comunità della Driftpile Cree Nation, ha trascorso parte della sua infanzia in una riserva e sa bene cosa significhi ereditare uno stigma.
"Storia del mio breve corpo" è un memoir composto di frammenti brevi, ma incisivi, scritto da un nativo cresciuto in una riserva canadese. Quello che lo aspetta, però, è un duplice isolamento: da un lato, in quanto indigeno, dall'altro perché queer. Una riflessione profonda che tocca i nostri sentimenti più intimi.
La sua è una vita che viene definita da una litote - “nativo non ancora morto”, appunto -, come se essere il superstite di una comunità indigena comporti la colpa stessa dell’essere vivo e dunque la testimonianza di una storia da cancellare che ancora si ripropone. Scrive infatti l’autore: «Nel territorio della mia gente giace un futuro cadavere col mio nome sopra».
Tuttavia, il fatto stesso che la sua voce si esprima dimostra che c’è una forza nelle comunità dei nativi che si oppone a quel destino ineluttabile che i dominatori hanno scritto per loro. Con questa raccolta di saggi l’autore mantiene viva la memoria di un passato fatto di sopraffazione che in realtà è sempre presente e si estenderà prevedibilmente fino alle prossime generazioni.
Ma quella di Belcourt è anche un’esistenza che deve fare i conti con il suo orientamento sessuale. Gay tra i nativi e nativo tra i gay, la visione del suo corpo viene filtrata sia dallo sguardo eteronormato della sua comunità sia da quello razzista degli omosessuali bianchi con cui ha rapporti intimi. «Essere queer comporta un’orizzontalità e una verticalità che strattonano il sé in varie direzioni»: gli NDN vedono in lui una «sconfessione del futuro», l’impossibilità della riproduzione; i gay che incontra tramite Grindr lo considerano un simbolo, anzi un feticcio, qualcosa da provare.
Le sue riflessioni sono corroborate da citazioni puntuali di altri autori e autrici più o meno note che possono aiutare il lettore ad ampliare le proprie conoscenze sui temi queer ed etnoantropologici.
La forza di questo memoir sta nella proposta di ribellione positiva che rintracciamo capitolo dopo capitolo. Il racconto testimoniale intriso di violenza e morte viene controbilanciato dal suo inno alla gioia, all’amore e alla libertà, forme ottimistiche di resistenza tese a sbaragliare gli oppressori. Grazie alla loro natura radicale questi sentimenti possono essere in grado di rovesciare le politiche di negazione e annientamento che fanno del razzismo e dell’omofobia il loro vessillo.
La storia di Belcourt è quella di un corpo breve, cioè giovane, che a partire dal suo essere NDN e queer assume un’investitura poetica che sa «sganciare le parole dalla monotonia della voce in favore della polifonia del discorso politico». È un memoir in cui una sola persona parla al resto del mondo, o semplicemente a chi vorrà leggerne la storia, a nome di molte altre vite passate e presenti con l’obiettivo di estendere l’orizzonte storico del futuribile.
Questo libro rappresenta una straordinaria occasione per decolonizzare la nostra prospettiva a favore di una visione più ampia della Storia che accolga la memoria e la presenza di varie popolazioni nella sua interezza anziché cancellarne intere parti.
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