Nel silenzio della mia stanza, sotto le lenzuola di lino, tutto si mescolava pigramente: il dolore e il piacere di non crescere, la gioia e la disperazione di restare in quella casa. Anch’io sarei andata via prima o poi? Intanto, desideravo che la mia vita rimanesse così, esattamente com’era sempre stata
Una storia per chi non ha timore dei sentimenti inespressi, dell’incompiutezza, di un dramma senza colpevoli. Per chi è in grado di accettare una vita che scorre senza lasciare traccia.
Una minima infelicità (Neri Pozza) è un racconto di animi, ma soprattutto di corpi. Quello di Annetta, che è fermo, non cresce. Quello sinuoso di Sofia, bello, eppure decadente, che sfiorisce davanti agli occhi della figlia fino a scomparire. Tutto, nel romanzo di Carmen Verde, è minimo: la scrittura, le immagini, le voci dei protagonisti. E l’idea – che pure anima la pagina, come una forza segreta – non invade la scrittura, non la sovrasta. Le si affianca senza peso, con quella naturalezza che è prerogativa dei classici.
Una minima infelicità è un romanzo vertiginoso. Una nave in bottiglia che non si può smettere di ammirare. Annetta racconta la sua vita vissuta all’ombra della madre, Sofia Vivier. Bella, inquieta, elegante, Sofia si vergogna del corpo della figlia perché è scandalosamente minuto.
Le memorie di Annetta tracciano una storia di marginalità. Una tragedia domestica senza orrori né clamori. Il lettore stenta a intuirne i confini – i luoghi, i tempi –, ma non ne sente il bisogno. A poco a poco, il ritratto di famiglia emerge nei suoi elementi essenziali: il padre Antonio, commerciante di stoffe, dimesso, dimenticato; la nonna Adelina, condannata ad una vecchiaia di follia; Clara Bigi, l’inserviente arcigna e dispotica, che fa da padrona in una casa senza padroni; la madre Sofia, i cui pensieri non si riescono a penetrare. Nessuno parla del corpicino corto, manchevole di Annetta. Una omissione volontaria, nascosta sotto il velo di un pudore borghese.
A far da teatro ai personaggi, infatti, non è la miseria, ma la medietà. Un sistema semplice, riflesso nell’ordine e nell’intimità della casa familiare, dove si svolge tutta la storia. È attraverso lo sguardo di Annetta, incapace di arrivare all’altezza degli altri, che il vivere quotidiano si espande oltre l’apparenza, e vi si intrufolano il tradimento, lo scandalo, la malattia, la morte. Sullo sfondo del declino, quieto, ma ineluttabile, Sofia Vivier – mamma – si staglia con una sorta di maestosa ordinarietà. Annetta ne studia i gesti, le parole non dette, i desideri inappagati, intuendo l’impronta dell’animo di sua madre, ma senza riuscire ad afferrarla. Sofia, presa dal proprio lento concedersi all’infelicità, scava con la distanza il dolore della figlia. Alla fine, ad Annetta resta solo il ricordo, impresso nell’immobilità delle fotografie che sfoglia mentre racconta. E nel rimpiangere la madre, finisce per dimenticarsi di sé.
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