Il 9 maggio di quest’anno si caratterizzerà per un conflitto sulle memorie.
Da una parte starà la celebrazione tradizionale sulla piazza antistante il palazzo del Cremlino della sfilata militare per celebrare l’anniversario della fine della Seconda guerra mondiale ovvero la vittoria sul nazismo. Quell’occasione – sempre che ci riesca per davvero – dovrebbe essere, nei propositi di Vladimir Putin la celebrazione della fine della guerra in Ucraina e dunque, in quello che è stato il suo linguaggio di guerra, la vittoria sul nazismo ucraino. Ovvero un modo di dire che il presente e il passato si sovrappongono e che il presente si illumina della luce del passato. Quello che si potrebbe chiamare un uso politico del passato.
Dall’altra starà La Giornata dell'Europa, decisa al vertice tenuto a Milano nel 1985 i capi di Stato e di governo hanno deciso di festeggiare questa data come Giornata dell'Europa.
Quella data per certi aspetti coincidente con la prima ha tuttavia un altro tipo di profilo e ricorda quando, il 9 maggio 1950, di fronte al timore che il clima di guerra fredda immettesse alla possibilità di una terza guerra mondiale a Parigi la stampa era stata convocata alla sede del Ministero degli Esteri di Francia, per una comunicazione della massima importanza: la lettura pubblica della dichiarazione redatta da Robert Schuman, Ministro francese degli Affari Esteri, in collaborazione con Jean Monnet sugli scopi dell’Europa.
La pace mondiale non potrebbe essere salvaguardata senza iniziative creative all'altezza dei pericoli che ci minacciano.
«La pace mondiale - esordisce la dichiarazione - non potrebbe essere salvaguardata senza iniziative creative all'altezza dei pericoli che ci minacciano». E poi prosegue: «Mettendo in comune talune produzioni di base e istituendo una nuova Alta Autorità le cui decisioni saranno vincolanti per la Francia, la Germania e i paesi che vi aderiranno, saranno realizzate le prime fondamenta concrete di una federazione europea indispensabile alla salvaguardia della pace».
Da una parte dunque sta una celebrazione del passato, senza togliere niente alla lotta e al costo - in termini di vite, ma anche di condizioni generali - che la Seconda guerra mondiale segnò – dall’altra sta un'ipotesi di futuro, incerto, discutibile, oggi forse meno attraente di quaranta anni fa e, ma non meno «spaventato» di settantadue anni fa.
Ma si potrebbe anche dire: da una parte sta l’appropriazione di un attore politico del merito del risultato di una lotta contro i razzismi (che non è mai improprio ricordare che comunque non fu solo effetto dello sforzo sovietico) e dall’altra sta un incerto progetto di futuro.
In tempi magri quali quelli attuali, e comunque con un processo di crescita che è stato turbolento e contrastato rispetto a quello segnato dall’immediata unificazione tedesca (su questo lo storico economico Alain S. Milward ci aveva già messo in guardia 30 anni fa nel suo L’Europa in fomazione (in Storia d’Europa, Einaudi) un testo tanto preciso quanto antiideologico, – 40 pagine essenziali – la questione di pensare Europa come progetto si presenta decisamente «in salita».
Caricarsi dello sforzo di immaginare futuro – uno sforzo sempre meno frequentato perché una caratteristica di questo nostro tempo è quella di aver abolito l’idea di futuro per accontentarsi di un presente «migliorabile» o di un presente da modificare il meno possibile perché domani «si può solo peggiorare» - può apparire un’«impresa impossibile». Per questo ha sicuramente un fascino rifugiarsi nelle celebrazioni del passato cercando – più o meno furbamente – di tradurlo nel tempo presente come risorsa «sempreverde».
E tuttavia l’operazione a cui siamo chiamati anche in relazione a questa data è quella di uscire dalla «zona di comfort» fondata sull’utilizzo di un «usato sicuro» e provare a fare un percorso più complicato. Perché il passato non ci salverà e solo immaginando il futuro possiamo pensare di uscire dalla condizione di stallo in cui ci troviamo immersi, prima in conseguenza del «tutti a casa» legato alla pandemia, e poi di fronte all’ipotesi di una nuova minaccia – se non reale, almeno «percepita» - di un nuovo conflitto mondiale dalle conseguenze devastanti e annichilenti.
Il passato non ci salverà e solo immaginando il futuro possiamo pensare di uscire dalla condizione di stallo in cui ci troviamo immersi.
Ma immaginare il futuro non significa affidarsi a una «palla di vetro» e cercare di scrutare un percorso privo di legami col presente. All’opposto si tratta di assumere il presente, con tutte le sue incertezze, contraddizioni, e provare a metterci del nostro per uscirne avendo davanti un percorso riflessivo che non sia «sogno» o «evasione dal presente».
Per affrontarlo, proprio per il suo carattere performativo, prima ancora che teorico, è importante riprendere in mano quella dichiarazione del 1950, ma anche quella decisione del 9 maggio 1985, presa anch’essa non senza difficoltà nel XL anniversario della fine della Seconda guerra mondiale e conseguenza della scena del 22 settembre 1984 quando, nel LXX anniversario dell'inizio della Prima guerra mondiale, l’allora presidente francese François Mitterrand e il cancelliere tedesco Helmut Kohl, si prendono per mano a Verdun, per chiudere anche emozionalmente un conflitto che ha segnato sangue, lutti, rancori e e proporsi di farle fare «un passo in avanti». Non si tratta di dimenticare, ma le sfide del futuro se chiedono di ricordare, obbligano anche a elaborare, per non cadere vittima de quell’uso politico del passato che scambia di creazione di futuro con impiantamento e immobilità nel passato. In nome del principio che «il passato garantisce».
Il tema è dunque proporre un percorso che ha connessioni con un atto di memoria, ma che non traduce la memoria in storia.
È vero infatti che la memoria è fondamentale per la storia ed è indissolubilmente legata ad essa, ma poi si tratta di ricavare dalla memoria delle cose, sia da quella degli uomini nella storia che da quella delle loro azioni per non rimanere impantanati. La memoria per il futuro non è ripetizione di un codice salvifico, ma chiede uno sforzo creativo a chi quella memoria voglia mantenere. In breve la memoria è al più, come giustamente ci richiamava anni fa il filosofo Avishai Margalit nel suo Etica della memoria (il Mulino)“conoscenza che viene dal passato, ma non è necessariamente conoscenza sul passato”.
Significativamente quella scena del 1914 dopo il 1985 non ci racconta più il trauma della morte, ma i modi e i percorsi in cui uomini e donne nella storia decidono di celebrarlo e come nel tempo sanciscono una nuova possibile canonizzazione di quel tempo che cessa di essere tempo fermo, «celebrazione», per trasformarsi in progetto, ovvero in percorsi di «futuro possibile».
Può darsi, anzi è quasi certo, che da allora il progetto europeo si sia appannato, abbia trovato difficoltà tali per cui esso risulti decisamente non attraente, lontano, opposto agli interessi di molti, comunque alieno. In altre parole «not friendly», sospeso tra una consapevolezza di confrontarsi con il passato vissuto come procedura di espiazione e dunque volto a fondarsi su un’azione che propone il superamento delle proprie eredità o un passato rivendicato come orgoglio e dunque fondato su una partecipazione al progetto come rivendicazione vittimaria e vittimista che deve trovare soddisfazione. Così in questi ultimi venti anni la battaglia per esprimere l’anima del progetto europeo è tornata spesso a confrontarsi sulla costruzione di un calendario civile europeo su cui convergono molte memorie «nazionali» e «locali», ma senza che avvenga contemporaneamente un reinvestimento di progetto di futuro.
Il rischio è quindi che quel progetto finisca per diventare espressione di un’anima che troverebbe fondamento nel passato. Cioè l’esatto opposto del progetto di partenza, che occorre tornare a definire. Anche per questo è bene che la sfida delle memorie rappresentata dal 9 maggio indaghi non tanto e non solo sulla memoria come fonte di conoscenza che viene dal passato, quanto sulla memoria come conoscenza del passato. Ovvero come appuntamento per pensare futuro.
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