È stata una delle cantanti jazz più vere che io abbia sentito. Dovrebbe essere trattata alla stregua di Ella Fitzgerald o di Billie Holiday. Aveva il dono assoluto. Se fosse ancora viva le direi: “Rallenta. Sei troppo importante. La vita ti insegna come vivere. Se riesci a vivere abbastanza a lungo…”
Quanta saggezza e quanta ammirazione nelle parole di Tony Bennett, l’ultimo grande crooner americano, venuto a mancare purtroppo nel luglio scorso, riferendosi ad Amy Winehouse, la voce femminile più iconica che ci sia stata dall’alba degli Anni Zero ad oggi.
Sicuramente la più intensa e senza filtri.
Peccato però che la stropicciata e cotonatissima cantante originaria di Londra Nord, che pure riuscì a incidere un duetto nei mitici Abbey Roads con quello che considerava uno dei suoi idoli assoluti, non abbia potuto ascoltare e poi far tesoro delle parole di colui che la considerava una figlia putativa, quantomeno artisticamente parlando.
Complice una vita vissuta al limite (e oltre) e dove il troppo era purtroppo diventato regola di vita (troppo bere, troppe droghe, per non parlare della bulimia), se n’è andata il 23 luglio del 2011 stroncata da un infarto causato da livelli di alcol nel sangue quasi cinque volte il consentito. Una morte divenuta di dominio pubblico lo stesso, triste giorno in cui il mondo ha conosciuto l’orrore dell’isola norvegese di Utøya in cui un invasato neonazista fece sterminio di 69 ragazzi. Ragazzi nella cui colonna sonora - statene certi - c’era spazio anche per le canzoni di Amy Winehouse, soprattutto quelle del capolavoro Back To Black, il secondo dei due album da lei realizzati prima della prematura scomparsa (l’altro s’intitola Frank ed è datato 2003). Quello, per intenderci, con cui conquistò la bellezza di cinque Grammy in un colpo solo.
All’epoca era praticamente impossibile non farsi ammaliare nella rete di Amy, quello scricciolo di donna dal look che volutamente richiamava gli anni Sessanta (ma con un sacco di tatuaggi improbabili), che appena apriva bocca non ce n’era davvero per nessuno.
Con quella sua voce imponente condensava decenni di musica nera: R&B, soul, jazz.
No, il suo non era l’ennesima operazione revival di una ragazzaccia che tentava l’azzardo giocando a fare la diva in stile Motown. Quella musica scorreva veramente nelle sue vene. Era il suo sound che abbinava a ritmiche in stile hip-hop (prima di morire avrebbe voluto mettere in piedi un gruppo jazz con Questlove dei Roots) e a testi che sfidavano spesso la censura in cui ci metteva molto della sua vita spericolata e, soprattutto, del sofferto amore tossico con l’adorato Blake Fielder, ma anche molta ironia come nel caso di una delle sue hit più celebrate, Rehab, in cui si prendeva gioco di chi l’avrebbe voluta in una clinica di riabilitazione per mettere fine ai suoi interminabili eccessi.
Ormai entrata nel pantheon delle artiste maledette che rimarranno per sempre giovani, viene legittimamente da chiedersi come sarebbe oggi Amy. Già, perché il 14 settembre di quest’anno avrebbe compiuto 40 anni, l’età esaltata da Nanni Moretti nel film Aprile (ricordate la scena de metro?).
Sì, è vero, la cantante non ha saputo gestire quel circo mediatico alimentato da un voyeurismo morboso e senza pietà, che ha dato veramente il peggio di sé di fronte alle fragilità di quella ragazza che si atteggiava a dura e sfoggiava capelli cotonati, eyeliner pesante e reggiseni da pin-up (un’estetica saccheggiata ultimamente dal mondo della moda), ma era in realtà un concentrato di timidezza e vulnerabilità.
Alzi la mano chi avrebbe mai potuto farcela? Era finita in una gabbia. Da cui era ormai quasi impossibile sottrarsi per darsela poi a gambe levate.
Scritto e pubblicato in occasione del decimo anniversario della morte di Amy Winehouse, La mia Amy: è il suggestivo ritratto dell'amicizia indissolubile di una vita - e un'analisi spietata sulla celebrità, la dipendenza e l'autodistruzione.
Ancora una volta ci vengono in aiuto le parole del grande Tony Bennett:
Quando sei una cantante jazz non hai bisogno di cantare davanti a 50 mila persone
Ecco, se fosse possibile riportare in vita Amy, per prima cosa la vorremmo anni luce distante dal mondo del pop usa-e-getta e consuma celebrità. Le avremmo suggerito solo selezionatissime esibizioni in piccoli club, dove illuminare la scena con la sua “Big voice”, e tanti bellissimi dischi, sottraendosi però a ogni happening promozionale. Purtroppo, sogniamo a occhi aperti. Indietro non si torna.
Allora non ci resta che ascoltare e riascoltare la sua musica e accontentarsi di quel che editori e cineasti sfornano in occasione di quelli che sarebbero stati i primi 40 anni della signora Winehouse.
Una vita a mille all'ora. Una vita da film. Come Black To Black che, oltre a esser il titolo del miglior album di Amy, sarà anche il titolo del biopic a firma dell’artista, regista e fotografa Sam Taylor-Johnson, tra i titoli più attesi del 2024. Un film che, almeno nelle intenzioni, avrebbe la pretesa di rendere giustizia alla più grande (tuttora insuperata) cantante.
Dopo essere stata maltrattata in vita, Amy se lo meriterebbe, no?
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