In questi testi Erba predilige una poesia di piccole cose quotidiane per parlare dei grandi interrogativi dell'esistenza e della vita civile, nel dubbio (metafisico e aperto alla speranza) che «forse questo e qualsiasi tracciato... / altro non sono / che eventi privi d'ombra e di riflesso / soltanto un segno che segna se stesso».
A volte le poesie sono ritratti dei loro autori, anche solo per un’immagine o per un elemento che le assimila a chi le ha scritte.
In questo testo di Luciano Erba, poeta di cui ricorre nel 2022 il centenario della nascita (1922-2010), è proprio l’immagine centrale del filo di ferro a descrivere l’autore, il quale si colloca per tal via in scena, rendendosi presente anche fisicamente al suo lettore («perché magro svelto resistente»).
Non l’astrazione segna infatti la poesia di Erba, ma al contrario una continua spinta a oggettivare: è l’alfabeto delle cose a esprimersi, sono esse con la loro presenza, il loro enigmatico e incerto profilo (nuvole, abiti, oggetti quotidiani) a parlare, traducendosi in segni visibili. Ma, attenzione: visibile e oggettivo non significa privo di ombre, di sfumature, di brividi. Quanto più l’oggetto evocato è familiare e magari dimesso, tanto più può caricarsi di significati, di rinvii e, soprattutto, di domande.
Ed ecco il punto centrale: tutta quanta la poesia di Erba è fatta non di asseverazioni, ma di interrogativi. Anche in questo testo, raccolto ne L’ippopotamo, libro uscito nel 1989, è così.
Il poeta chiede, dubita, ipotizza, lasciando infine il discorso sospeso, il cerchio aperto. Ed è in quel varco, in quello spazio lasciato schiuso, che il lettore può a sua volta trovare un accesso, introdursi nel ragionamento perplesso dell’autore, fare proprio il suo discorso costituito da cose, da esperienze di ogni giorno: un discorso svolto con tono svagato e minimale.
Il poeta è paragonabile al fil di ferro? Ebbene, esso non significa resistenza, suggerisce il poeta, ma vulnerabilità. La poesia sul fil di ferro parla infatti della paura di essere feriti e della ferita che sempre (sempre) l’amore porta con sé, con le sue apparizioni e sparizioni, con i suoi ritorni e le sue frasi tormentose, le incognite e le domande che ci solleva dentro.
Soltanto una parete bianca rimane, vuota della presenza amata: forse la mancanza potrà essere il colpo finale, che dopo averlo piegato spezzerà il filo pur costituito di ferro. Sarà però davvero così?
Il poeta non lo afferma, così come non parla della figura cara che lo assilla ora che è assente, avendo sottratto ogni segno di sé dal mondo, mentre quel mondo, rimasto vuoto, parla ancora di lei («Assenza, / più acuta presenza», suonano due versi giovanili di Attilio Bertolucci). L’amore piega e dirompe l’esile struttura, ma riuscirà a spezzarla? Il poeta non ha nominato l’amore, non la donna. Ha costruito un teatro di oggetti, di scene piccole e comuni, ha mimato un dolore e un’attesa, il dubbio di non farcela davanti a un mancamento che toglie il fiato.
È lui, siamo noi, quel fil di ferro in mano a un ragazzo invisibile: alla sorte, a una forza oscura, sconosciuta, che lo piega da una parte e dall’altra e che forse potrà spezzarlo, forse no.
Di
| Mondadori, 2006Di
| Mondadori, 2022Di
| Interlinea, 2002Scopri altri poeti
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