Mettetevi nei panni di un ascoltatore d’opera di metà Ottocento: entrando in teatro è abituato a trovare storie d’amore, adeguatamente intrise di romanticismo, spesso collocate in un rassicurante ambiente borghese – pensate a La Traviata. E, soprattutto, è abituato a seguire un racconto fatto di forme chiuse, chiare, che alternano momenti nei quali l’azione procede, detti recitativi, e altri – le arie – dove invece tutto si ferma per dare sfogo ai sentimenti, alle idee nascoste.
È quello il modo in cui l’opera funziona, da sempre, e così si è sempre fatto, da Monteverdi a Händel, da Mozart a Verdi. Poi però all’improvviso arriva Wagner, ed entra in scena con idee strambe, scomode, rivoluzionarie: racconta storie che provengono dalla mitologia tedesca, ma vuole farlo costruendo una narrazione che è un unico, lunghissimo flusso. Non scrive arie segnate da melodie tornite, facili da memorizzare, facili da canticchiare uscendo dal teatro, così come fanno gli altri compositori: lui inventa il concetto di melodia infinita, una struttura ovviamente lunghissima dove galleggiano pagine e pagine di musica tra le quali gli ascoltatori sono invitati a riconoscere i Leitmotif, i motivi ricorrenti, associati a personaggi e situazioni, che devono servire da bussola per orientarsi in quell’oceano di note. Come se non bastasse, le melodie non sono delle protagoniste accompagnate dall’orchestra, ma diventano esse stesse linee musicali che si amalgamano al resto, e la voce di un soprano o quella di un baritono hanno lo stesso valore della frase di un oboe o di quella della fila di violoncelli. D’altronde Wagner non è più semplicemente un compositore: è l’autore del Wor-Ton-Drama, l’opera d’arte totale, per la quale crea il libretto, le scene, i costumi e naturalmente si occupa della regia – per inciso, non gli vanno bene nemmeno i teatri della tradizione: ne vuole uno specifico, con una buca dell’orchestra profondissima, e riesce a trovare i soldi per costruirlo a Bayreuth, dove ancora oggi si va in pellegrinaggio per ascoltare I Maestri Cantori, Tristano e Isotta, Lohengrin, Parsifal o L’anello del Nibelungo.
Capite che, di fronte a opere come le sue, il pubblico si divide. Molti le adorano sin dal primo istante, trasformando Wagner nell’idolo di un nuovo modo di pensare la musica; altri le rifiutano e non hanno nessuna intenzione di fare tutta quella fatica, in teatro, quando è tanto più semplice e appagante godersi le opere di Verdi, che proprio in quegli anni scrive i suoi capolavori.
La cosa curiosa è che la fatica la fa anche Wagner. E non parlo di quella consueta, che accompagna il comporre, una fatica normale, sacrosanta, anche bella (lo scrivo per esperienza); parlo di nervi stroncati, di uno stato di tensione perenne, di una mente travolta da questo flusso di musica e pensieri continuo, inarrestabile – Nietzsche nel suo celebre Il caso Wagner si chiede: «Wagner è un uomo o una malattia?». Per questo l’atmosfera irreale di Venezia, il carattere immobile di una città dove viene per sei volte, rimanendovi talvolta per mesi, a Wagner piace tanto. Lo rilassa starsene a Palazzo Vendramin, dove affitta un intero piano, con 28 stanze più bagni e cucina. Adora guardare il Canal Grande dalla finestra del soggiorno, qualche volta insieme a suo suocero, il compositore e pianista Franz Liszt. «Venezia è in armonia con il mio desiderio di solitudine», scrive.
A Venezia, spiega, gli piacerebbe addirittura morire. E il destino lo accontenta, con la complicità di un infarto che lo stronca il 13 febbraio 1883. Il giorno dopo, con lentezza, nel silenzio, una gondola funebre ne trasporta le spoglie sino alla stazione; da lì un treno le conduce a Bayreuth, perché vengano sepolte nel giardino di Villa Wahnfried.
Le sue opere, cariche di brividi e tensione, continuano ad essere eseguite in tutto il mondo; ma lui, almeno, ora se ne sta tranquillo.
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