Dovete immaginarvi un signore garbato, sorridente, molto elegante, che apre il coperchio di un pianoforte a coda e comincia a inserire tra le corde dei pezzetti di gomma, di legno, di feltro (che è un po’ come la lana, ma più compatto). Poi infila anche delle viti, di quelle che servono a tenere insieme i pezzi, e qualche rondella d’acciaio. Forse persino il frammento di un tappo di sughero. Lo fa a poco a poco, con calma, e ogni volta che ha infilato un pezzo poi si siede alla tastiera e ascolta che cosa viene fuori quando preme i tasti. Sì, perché i pianoforti, collegati ai tasti, hanno dei martelletti che colpiscono le corde, e se tra le corde hai infilato qualche elemento estraneo il suono sarà diverso da quello abituale. Così, ascoltando, valutando, magari spostando un po’ una vite o un pezzetto di sughero, provando e riprovando, alla fine quel signore ha trasformato completamente il buon vecchio pianoforte. Dice che lo ha «preparato», e senza dubbio una preparazione c’è stata. Che roba.
Il punto è che quel signore si chiama John Cage, e non è certo un matto. Al contrario: quando inventa il «pianoforte preparato», nel 1938, Cage – che di lavoro fa il compositore – ha ventisei anni ed è pieno di idee meravigliose, come questa. Nata, pensate, per risolvere un problema. Gli avevano infatti chiesto di comporre la musica per un balletto, e ci stava lavorando, quando viene fuori che sul palcoscenico non c’è spazio per un gruppo di strumenti a percussione, come lui aveva previsto, ma soltanto per un pianoforte. Così, anziché perdersi d’animo, John Cage ragiona sul fatto che anche il pianoforte è uno strumento a percussione, perché i martelli percuotono le corde, esattamente come si fa con un tamburo, uno xilofono, un triangolo; e se se ne cambia il timbro, infilando tra le corde dei materiali estranei, ci si trova davanti a qualcosa di nuovo e bellissimo che si suona come un pianoforte, seduti sullo sgabello, premendo i tasti bianchi e neri, ma fa arrivare alle orecchie cose che sembrano sding, tong, frizz, sbah e altri effetti mai ascoltati.
Una raccolta di brani di John Cage, eseguiti con il suo pianoforte preparato, all'interno del quale inserì oggetti di uso comune
Manco a dirlo, il «pianoforte preparato» ha un successo clamoroso. Avrebbe dovuto semplicemente risolvere un problema di spazio, ma si rivela un’invenzione della quale parla tutto il mondo. E allora Cage decide che per quello strano strumento – o meglio: per qualunque pianoforte che si possa «preparare» seguendo le istruzioni dettagliate che lui annota sui propri fogli –vale la pena comporre qualcosa di specifico e a suo modo grandioso. Scrive così la raccolta di Sonate e interludi per pianoforte preparato, una serie di pezzi strambi e bellissimi, che sfruttano in modo perfetto la sua invenzione. Alcuni ricordano musica orientale (in effetti Cage adorava i Paesi dell’Est), altri fanno pensare a un bambino che fa esperimenti su un pianoforte giocattolo, altri ancora sono inquietanti come le musiche di un film del terrore mentre il mio preferito, la Sonata n. 5, farebbe venire voglia di ballare anche a un materasso.
Per la cronaca, John Cage (che è morto nel 1992) non passò il resto della vita a scrivere per «pianoforte preparato». Dopo vari altri esperimenti molto curiosi, ad esempio, nel 1952 compose un brano intitolato 4’33”, anche detto «il pezzo silenzioso»: consiste infatti nell’ascoltare i rumori prodotti dal pubblico in quattro minuti e trentatré secondi, mentre il musicista che dovrebbe suonarlo ha fatto partire un timer e calcolato con precisione lo scorrere del tempo. All’inizio la gente protestò, si lamentò, pensò di esser presa in giro; poi però prese a divertirsi, e ancora oggi, se vi capita che in sala da concerto qualcuno proponga 4’33, correte a comprare il biglietto perché ne vale la pena!
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