L'esordio è sempre un momento catartico.
Il primo libro, quella storia che, dopo anni nei quali ronzava incessante nella testa dell'autore, vede finalmente la luce...
Dopo aver conosciuto il grande caso letterario di Beatrice Salvioni con La Malnata e aver scoperto una Napoli che promette e che toglie con l'intervista a Monica Acito sul suo Uvaspina, siamo tornati a dare voce ad una nuova storia il cui inchiostro scorre anch'esso tra le strade della Campania, ma questa volta nell'hinterland del capoluogo, per la precisione a Secondigliano.
Scopriamo insieme Nannina e conosciamo la sua autrice dalle mille sfaccettature, Stefania Spanò: cantastorie, interprete LIS, insegnante di sostegno e conduttrice di laboratori creativi nelle periferie turbolente dell'hinterland napoletano, nel resto d'Italia e all'estero.
Due protagoniste, due generazioni, due diverse Secondigliano che si incontrano e si scontrano. Un'unica cosa non cambia mai: l'importanza delle parole e delle storie.
Disobbedire vuol dire anche ribellarsi alle definizioni che non ci appartengono e provare ad essere noi stessi delle contro narrazioni viventi
Maremosso: Raccontaci un po’ di te e delle “pozioni esotiche di disobbedienza civile” di cui parla la tua biografia. Chi è Stefania Spanò?
Stefania Spanò: Come molte ragazze, che provengono da quelle che i manuali di sociologia definiscono “zone a rischio”, ho imparato prima di tutto a comprendere tutto quello che non sono e che non voglio essere. La mia crescita è stata la misura di una differenza tra me e il quartiere. Una misura che mi ha portata lontano. Andare fuori mi ha permesso di scoprire il punto di vista degli stranieri su Secondigliano, un punto di vista in cui non vedevo rappresentata né me stessa, né la mia famiglia, né le tante persone perbene che per i mass media fanno meno notizia delle faide di camorra; chi può fare la differenza c’è e c’era anche quando io ero piccola, ma, se non era scappato via come me, a Secondigliano tornava solo a dormire, la socialità la viveva a Napoli centro.
Tornare è stata un’assunzione di responsabilità, oltre che un momento identitario importantissimo. Ho dato un’occhiata attorno e mi sono rimboccata le maniche, collaborando con cooperative ed enti di educativa territoriale. In seguito ho fondato una mia associazione, col proposito di avvicinare i bambini al teatro e alla letteratura, e il desiderio di offrirgli l’opportunità, una volta cresciuti, di viaggiare grazie ai progetti Erasmus plus, per poi magari tornare a casa più ricchi, esattamente come ho fatto io, portando un’idea di cambiamento che si è arricchita col confronto e l’osservazione di un altrove. Disobbedire vuol dire anche ribellarsi alle definizioni che non ci appartengono e provare ad essere noi stessi delle contro narrazioni viventi.
Io a Secondigliano sono tornata anche a insegnarci. Siamo il quartiere col più alto tasso di dispersione scolastica in Europa e la mia più grande conquista è stata entrare in classe e dire ai miei allievi: “Guagliu’, pubblicherò un romanzo con Garzanti”, “Ma chi professore’, quello delle Garzantine?”, “Sì, quello proprio", è stato il modo più efficace di esortarli a credere nei loro sogni e studiare, perché la cultura è il riscatto vero, ad ogni latitudine.
MM: Nannina. Un nome, una donna, che fa da filo conduttore tra la storia che racconti in una Secondigliano di ieri e di oggi. Come nasce questo racconto e quello di Stephanie, voce narrante del tuo romanzo d’esordio?
SP: Il ritorno per me è coinciso con la riscoperta delle tradizioni familiari. Nannina è la mia nonna paterna e il romanzo è liberamente ispirato alla sua figura di donna e di cantastorie. Le neuroscienze hanno individuato una stretta connessione tra memoria e immaginazione, chi non ha memoria del passato non può immaginarsi alcun futuro e io volevo che le tradizioni delle feste e dei racconti nei cortili venissero riscoperte e potessero, anche solo nello spazio di tre ore di lettura, brillare più delle vicende criminose. Nel romanzo però la camorra esiste, sarebbe stato inverosimile il contrario, ma è narrata dal punto di vista di chi la subisce e ci resta coinvolto suo malgrado. Il lettore vive attraverso gli occhi di Stephanie la scoperta di quel passato sconosciuto e può, insieme a lei, rintracciarne affinità e divergenze nel presente, esprimendo i suoi personali desideri per il futuro.
Ricordando i bambini che eravamo possiamo tornare a vedere le alternative, che sono sempre la terza strada nascosta alla fine di un bivio
MM: Da Stephanie a Stefania. Tu stessa sei una cantastorie. Quanto di te c’è nella storia delle due cuntastroppole che animano le tue pagine e nelle quali le parole sono in grado di cambiare la vita delle persone?
SP: Mi sono divertita a ricalcare nomi e luoghi della mia famiglia, ma mentirei se ti dicessi che Stephanie ero io da bambina. Da scrittrice mi interessano molto l’infanzia e la preadolescenza perché a quell’età siamo ancora pura potenzialità, infiniti e illimitati come numeri periodici. Ricordando i bambini che eravamo possiamo tornare a vedere le alternative, che sono sempre la terza strada nascosta alla fine di un bivio. Stephanie è un patchwork di tante bambine che ho avuto la fortuna di incontrare. Di mio ci ho messo tre cose, ma tre cose profondamente mie; in primis l’amore per i libri. Io da piccola ero una scugnizza, non stavo mai ferma, mi piaceva esplorare e avventurarmi. L’estate che mi innamorai dei libri, era un agosto, me lo ricordo come fosse ieri, leggevo Quattro pirati e mezzo di Margaret Mahy, pensai: “Ma chi me lo fa fare di uscire?! Io posso essere un pirata vero, col pappagallo sulla spalla e tutto.” Mi negai per tutto il mese agli amichetti che venivano a cercarmi per andare al mare. Mi piazzai sull’amaca in giardino e lessi quello e molti altri libri.
La seconda cosa mia che ho dato in dote a Stephanie è il senso di inadeguatezza che trasferiscono gli adulti sui bambini, quello di quando ti dicono che nelle cose dei grandi non devi mettere bocca, poi ci pensano loro e non sanno difendere né te né loro stessi. L’umiliazione dell’impotenza per interposta persona è un ricordo vivido e doloroso, forse l’ho ingigantito per nutrire lei.
L’ultima cosa, facilmente intuibile, che ho trasferito in Stephanie, è stata la difficoltà di perpetuare un mestiere antico in un mondo totalmente cambiato e provare a farlo fuori dai teatri, nelle strade e nelle piazze, esattamente come si faceva un tempo.
MM: “[…] ché la pazzia è una cosa che si eredita come il colore degli occhi. Per il mondo di fuori vado da Adelina ‘a Piccerella a Nipote d’a Pazza senza mai passare per me”. In questo romanzo viene dato ampio spazio all’affermazione di sé, alla ribellione dallo standard di genere e anche alla “pazzia”, etichetta troppo spesso posta su quelle donne che vogliono solamente far sentire la propria voce. Da dove nasce il desiderio di mettere nero su bianco questi temi?
SP: La devianza esiste solo in relazione alla norma, ma chi stabilisce la norma? Troppo spesso lo fa chi non vive la condizione che pretende di definire e misura gli altri sulla base di un sé stesso normativo. Questo vale per l’identità di genere, per la follia e, grossomodo, per tutta la rappresentazione delle minoranze. È un tema che mi tocca profondamente perché, da interprete LIS, sono molto vicina alla comunità sorda e mi sono battuta assieme ai sordi sia per il riconoscimento della lingua italiana dei segni, che per quello dello statuto ontologico di persona sorda. Loro stessi hanno chiesto per anni di essere chiamati Sordi, perché la sordità è una condizione che li caratterizza, più di altre, come individui nel mondo, ma per anni li abbiamo chiamati audiolesi o non udenti, come se identificarli con una mancanza fosse utilizzare un sinonimo più gentile. Nominare le cose è il primo esercizio di potere e a me, da scrittrice e da essere umano, interessa problematizzare tutti quei sinonimi, che sinonimi non sono affatto e ricontestualizzarli continuamente perché, come scriveva Wittgenstein: “Il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio”.
MM: In qualità di autrice, come definiresti il rapporto tra Stephanie e sua nonna? Cosa vorresti che lasciasse, la loro storia, nella mente e nel cuore dei tuoi lettori?
SP: È un rapporto conflittuale, in cui ognuna deve capire e rispettare i desideri dell’altra per ritrovarsela vicina. Dall’etimo, il compromesso è una promessa di vicinanza. Scegliere due protagoniste che appartengono a generazioni così distanti, quelle di nonna e nipote, mi ha permesso di mettere a fuoco entrambe le posizioni in uno scontro dialettico che è crescita per entrambe.
Con Stephanie ho drammatizzato uno dei luoghi comuni che più mi fa rivoltare gli intestini, ovvero i giovani che sentono dirsi dai vecchi: “Noi abbiamo fatto la nostra parte, adesso tocca a voi!”, come se la causa civile fosse un turno di fabbrica. Diamoci il cambio! Non può e non deve essere così: è nella dialettica transgenerazionale che si comprendono le istanze del presente. Con Nannina invece, mi sono fatta portavoce di quella stanchezza che si cela dietro la deresponsabilizzazione totale del cedere il passo, perché quando il mondo così com’è ti appare un geroglifico senza capo né coda, preferisci sperare che chi è più fresco e lucido di te possa fare meglio.
Detto questo, il romanzo è solare, si ride, si piange, ma alla fine quello che trionfa su tutto è la fiducia verso un futuro fatto di comunità e dalle comunità. Le parole dei cunti sono formule magiche, finché ci saranno un io e un tu che si raccontano l’un l’altro vorrà dire che l’umanità ha ancora qualche desiderio da condividere. E il desiderio ha di per sé una connotazione magica, anche quando non si avvera.
MM: Il personaggio di Massimino, con quella cartella nella quale “infila tutto quello da cui non ha il coraggio di separarsi” è quasi il ritratto del detto: “non giudicare un libro dalla copertina”. Senza rivelare troppo sul suo arco narrativo, che cosa pensi rappresenti e quanto impatta la sua presenza nella vita di Stephanie?
SP: Con Massimino, Stephanie scopre il significato del prendersi cura. Talvolta, soprattutto per le donne, il prendersi cura di sé stesse passa per l’aver cura prima di qualcun altro. Io, personalmente, sono felice quando le due cose sono intrecciate l’una nell’altra. Massimino è la mia preghiera a tutti i fragili che ho incontrato sul mio cammino, alla purezza che mi hanno donato senza chiedere nulla in cambio. È anche l’urlo per tutti quelli che non abbiamo saputo e non sappiamo difendere.
MM: L’ultima domanda è su Napoli. Che rapporto hai con la città di cui narri nel romanzo? Quale posto trovano i cunti in un posto tanto bello quanto turbolento.
SP: Nel mio romanzo c’è un’unica scena ambientata a Napoli, tutto il resto è l’hinterland dell’area nord, ma capisco il senso della tua domanda. La napoletanità stessa è un cunto, a volte sussurrato, a volte gridato, spesse volte taciuto. L’anima di questa città è polimorfica, cambia a seconda della luce, degli odori, della prospettiva. Anche guardare Napoli dalla periferia ha un senso ben preciso, che in quello specifico capitolo del romanzo si rende manifesto. In ogni caso, quando pensi di averle trovato una forma, la città ti si smargina sotto gli occhi, sempre. Più di tutto però è una città difficile. L’ho sperimentato abitando altrove, qui fare ogni cosa è difficile.
Ultimamente stiamo vivendo un boom di turismo che non s’era mai visto prima, dovremmo approfittarne per creare spazi di creatività e cultura per la cittadinanza, senza limitarci a vendere le vestigia del nostro passato. Io, nel mio piccolissimo, punto a far diventare la periferia il nuovo centro, non più la succursale, ma un polo attrattivo per i napoletani e per chi viene da fuori. Non sono sola, ci sono tanti amici che si barcamenano nelle difficoltà, più e meglio di me, pur di far sì che accada. Abbiamo solo più bisogno delle istituzioni perché le forze ci sono.
Pronti a percorrere le strade di Secondigliano per ascoltare i cunti di Nannina e Stephanie?
Per un approfondimento sul valore dei presidi culturali nelle zone difficili, non perdetevi l'articolo dedicato alla Scugnizzeria.
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