Ci sono poche certezze, quando si parla di Paolo Cognetti: la prima, ormai antica, è che Sofia si veste sempre di nero, come abbiamo imparato nel formidabile “romanzo di racconti” che ha definitivamente imposto il talento di Cognetti sulla scena della narrativa italiana.
La seconda certezza è che quando Cognetti è invitato per un’intervista a proposito del suo ultimo libro, Paolo non si presenta mai solo.
Come un talismano infallibile – e molto più simpatico di qualsiasi corno o ferro di cavallo – ecco trotterellare dietro di lui Laky: mezzo border collie, mezzo setter, tutto occhi. Occhi buoni e un sorriso appena incerto (“si è rotto un dente giocando a mordicchiare i copertoni delle auto”), che però non sortisce altro effetto che quello di amplificare la naturale simpatia ispirata dal cane. Laky passerà tutto il tempo dell’intervista che abbiamo fatto al suo umano di riferimento a seguirne gli sviluppi dialettici, accompagnando con occhiate e scodinzolamenti eloquenti le diverse fasi della bella chiacchierata.
Ogni tanto, a dirla tutta, Lakysi prenderà anche il lusso di schiacciare un pisolino: speriamo non significhi che abbiamo rivolto a Cognetti domande troppo noiose.
“Doveva fare il cane da pastore, ma se ne andava a zonzo fregandosene delle pecore. Dovevano sopprimerlo perché non serviva a niente, e allora me lo sono preso io” ci racconta lo scrittore stringendosi nelle spalle, e noi non possiamo fare a meno di pensare al Buck che Jack London rese protagonista de Il richiamo della foresta, notando che la voce di Cognetti, quando parla di Laky, scende di una mezza ottava e si addolcisce.
E La felicità del lupo, alla fine, parla un po’ anche di questo. Nel libro che Cognetti è venuto a presentarci si parla di persone che credono di non aver più nulla da dare e che finiscono, invece, per adottarsi a vicenda, sfoderando l’uno nei confronti degli altri la stessa compassionevole accettazione che si nutre verso i randagi.
“I miei protagonisti sono quattro solitari che si incrociano e per un po' si vogliono bene, nel loro modo a volte un po' brusco, a volte timido” spiega Paolo Cognetti “Si danno rifugio, si accolgono”.
Di Paolo Cognetti conosciamo lo sguardo luminoso e la voce limpida, il dono di osservare le relazioni umane nel loro dialogo ininterrotto con la natura, che siano i boschi di larici dei duemila metri o il paesaggio di roccia e ghiaccio dei tremila
Parliamo della tua ultima storia, La felicità del lupo. Perché hai scelto di intitolarla così?
Questo titolo evoca un po' un mito londoniano. Quando scrisse quel capolavoro che è Il richiamo della foresta Jack London mise in scena un cane domestico, ben educato, cresciuto in una villa in California che viene rapito dai cercatori d'oro. Attraverso mille disavventure riscopre la sua anima selvatica, il lupo nascosto dentro di sé. Alla fine, è felice: le ultime righe del romanzo parlano del suo ululato che si alza "come il canto di un mondo più giovane". Si tratta quindi della felicità dell'inselvatichirsi, dello scoprire un uomo selvatico che c'era prima di noi e che forse è nascosto da qualche parte.
Forse lo possiamo far rivivere.
Eppure, talvolta, conciliare la propria natura selvatica e quella più urbana può essere difficile: tu lo sai bene, essendo uno scrittore sempre in bilico fra questi due mondi…
È un equilibrio molto instabile, per me. Non sono mai riuscito ad andare a vivere del tutto in montagna perché non voglio che diventi per me una prigione, come per alcuni succede: voglio essere libero di sceglierla quando la desidero, ma anche di andare via. Idem per la città... cerco un equilibrio nell’andirivieni. Mi piace chiamarla "transumanza", nel senso che vado su in primavera come quelli che hanno il bestiame, resto su tutta l'estate e parte dell'autunno e torno in città quando nevica. Ci sono alcuni scompensi in questo andare su e giù: quando sono in città mi manca tanto l'attività fisica, gli spazi aperti, la libertà che sento in montagna... quando sono in montagna un po' mi manca la varietà umana che c'è in città, perché è il suo bello: la produzione artistica e culturale, la vita notturna, i bar, le strade in città…
Cammino tanto, però, sia in montagna che in città… effettivamente è ciò che faccio prima di mettermi a scrivere: faccio fatica a pensare stando fermo. Ogni mattina cammino due o tre ore, prima di tornare indietro e rimettermi al lavoro sulle mie storie. Come tanti, cerco un equilibrio.
… lo stesso equilibrio che hanno perso e stanno cercando di ritrovare, i tuoi quattro protagonisti: puoi parlarci un po’ di loro?
Sono quattro personaggi che sono anche quattro età: Silvia arriva in montagna a 27 anni, senza conoscerla un granché, anzi forse è la prima volta che ci arriva. Ha voglia di avventura, è giovane e ha voglia di emozioni, ha voglia di scoperte. Ha letto su un libro che alzarsi di mille metri sulle Alpi equivale a spostarsi di mille chilometri verso nord e così ha iniziato a sognare di andare a lavorare in un rifugio sul ghiacciaio del Monte Rosa… che per lei è come partire per il Polo Nord, per cui la seguiamo mentre vive la sua avventura.
Fausto è un po' più avanti. Ha 40 anni, ha preso dei brutti colpi in città ed è un ex scrittore: ha pubblicato un libro anni prima, ma non ha avuto successo… e il suo matrimonio è finito. Insomma, è un po' acciaccato. Arriva a Fontanafredda perché ha bisogno di rimettersi in sesto: sceglie questo posto perché è qui che passava le sue estati da bambino.
Babette è ancora un po' più in là: ha 50 anni, è arrivata in montagna da giovane, da Milano, perché gli anni Settanta erano finiti e arrivava il riflusso. Con gli anni Ottanta, si annunciava la fine della rivoluzione. La protagonista de Il pranzo di Babette di Karen Blixen era una comunarda che – fallita la Comune di Parigi – parte per la Norvegia. Allo stesso modo Babette de La felicità del lupo parte per le Alpi e apre un ristorantino, che chiama "Il pranzo di Babette"… come a dire "porto quassù la mia utopia, la mia rivoluzione, il mio amore". Il ristorante diventa il piccolo cuore di Fontanafredda. Però c’è da dire che Babette è arrivata alla fine della sua storia d'amore con la montagna: se ne vuole andar via. Dice che per lei la montagna non significa più niente, è tornata a essere solo un mucchio di sassi su cui scorrono i torrenti e cresce l'erba.
E poi c'è Santorso, che invece è colui che alla montagna appartiene. Sant’Orso è il santo più amato in Valle d'Aosta, ma è anche il nome di una grappa, quindi in lui il sacro e il profano si incontrano: è un forte bevitore, ma è anche quello che conosce meglio di tutti il luogo. Gli basta osservare per capire chi è passato e vedere le tracce degli animali nella neve.
Ecco, i miei protagonisti sono quattro solitari che si incrociano e per un po' si vogliono bene, nel loro modo a volte un po' brusco, a volte timido. Si danno rifugio, si accolgono. Parla di questo, il libro.
Ma La felicità del lupo finisce per parlare anche della morte: in quale modo l'incontro con la natura può aiutare a leggere una prospettiva diversa questo fenomeno, che tendiamo a rimuovere dalle nostre vite di cittadini e consumatori?
In città la morte è nascosta, come sappiamo: preferiamo non vederla. La occultiamo nelle pompe funebri o nelle stanze di ospedale. Non vediamo i morti. In montagna e nella natura l'incontro con la morte è quotidiano: ci sono alberi che muoiono spezzati dal vento, passeggiando si incontrano i cadaveri degli animali. Il ciclo di nascita, vita e morte è continuo e insito nelle stagioni: tutti gli anni lo vedi accadere.
Le persone si commuovono per l'ingiallire dei boschi, pensano: "ah, che bello!". Io non riesco a non provare invece un grande senso di nostalgia in questa stagione dell'anno: il bosco che ingiallisce è una piccola morte. Arriva l'inverno e la natura va in letargo in una simulazione della morte. Poi, per fortuna, ogni anno arriva la primavera: quella è la mia stagione preferita. Se hai familiarità con questo ciclo, inizi a sentirtene parte anche tu: inizi ad associare le stagioni con le età della vita, per cui ti senti nella primavera, nell'estate, nell'autunno della vita... capisci che arriverà anche l'inverno. E forse fai un po' la pace con l'idea della morte e con la consapevolezza che arriverà anche per te.
Io mi sono avvicinato di più al buddismo perché vivere nella natura ti fa pensare molto spontaneamente all'idea di essere all’interno di un ciclo, piuttosto che semplicemente dentro a una storia che inizia e finisce. La tua storia finirà e poi in qualche modo la materia di cui si è fatto tornerà in circolo e la vita proseguirà dopo di te. È tutto molto evidente, quando abiti nella natura.
Grazie mille, Paolo Cognetti! E arrivederci al prossimo libro.
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I libri di Paolo Cognetti
Di
| Ponte alle Grazie, 2021Di
| L'Ippocampo, 2021Di
| Terre di Mezzo, 2019Di
| Einaudi, 2019Di
| Einaudi, 2018Di
| Minimum Fax, 2017Di
| Laterza, 2017Di
| Minimum Fax, 2017Di
| Minimum Fax, 2013Per poter aggiungere un prodotto al carrello devi essere loggato con un profilo Feltrinelli.
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