Dopo la sentenza Cavallini e la condanna di Bellini, Paolo Morando racconta la più grave strage della storia italiana, che per la prima volta ha mandanti e organizzatori.
Nell'anniversario della strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna, riproponiamo ai lettori l'intervista realizzata con Paolo Morando in occasione dell'uscita del suo libro La strage di Bologna, edizioni Feltrinelli
Il 2 agosto 1980 con lo scoppio della bomba alla stazione di Bologna, 85 persone persero la vita.
Ma, accanto a loro e ai duecento che rimasero feriti, un numero difficilmente quantificabile di altre vite vide il proprio corso deviare in modo violento e irreversibile.
I parenti delle vittime, negli anni e nei decenni successivi, dovettero infatti fare i conti con una duplice assenza: oltre al buco nero nel quale erano sprofondati i loro cari, infatti, molti si resero conto di quanto la Giustizia, che avrebbe dovuto contribuire a individuare i responsabili di quella assurda tragedia e a inquadrare storicamente l'accaduto, si stava avvitando in una spirale istruttoria senza fine, che spesso finiva con l'allontanare da una qualsiasi verità processuale più di quanto non contribuisse ad avvicinarvisi.
Fra le storie delle tante vittime, quella vissuta da Anna Di Vittorio assume grande importanza.
A Bologna, Anna perse suo fratello Mauro.
In quegli stessi giorni di lutto e incredulità, però, conobbe Gian Carlo Calidori, che nella strage aveva perso un amico e che in seguito sarebbe divenuto suo marito
Nel 2008, dopo un lungo percorso di corrispondenza con Francesca Mambro e "Giusva" Fioravanti, condannati in via definitiva per le loro responsabilità nella vicenda, Anna e il marito scrissero una lettera di “perdono” che avrebbe consentito alla Mambro di ottenere la libertà.
Ma la storia della strage di Bologna è uno strano moloch che, nel corso del tempo, ha finito per assimilare e avvalorare le posizioni più eterogenee e contraddittorie, complici anche le esitazioni di una Giustizia troppo spesso incline a lasciarsi fuorviare o guidare da depisataggi, impistaggi e paludamenti vari.
Così, quando il cosiddetto "fronte innocentista" cominciò a sostenere che a trasportare la bomba, rimanendone vittima, era stato Mauro Di Vittorio, vicino a Lotta Continua, i primi a saltare sul carro di quella ricostruzione tendenziosa e poco credibile furono proprio gli stessi Mambro e Fioravanti.
La vicenda rientrò abbastanza in fretta anche per via giudiziaria, ma è a questo episodio che allude "il perdono tradito" citato nel sottotitolo del libro di Paolo Morando. E - come scoprirete ascoltando e guardando la nostra intervista con Morando - quella della strage di Bologna è una storia piena di tradimenti, a tutti i livelli. Tradimenti e silenzi che si coagulano sempre più chiaramente attorno alle lutulente e ambigue figure di Paolo Bellini e Gilberto Cavallini, appartenenti ai NAR - Nuclei Armati Rivoluzionari - formazione eversiva la cui importanza una certa vulgata ha sempre teso a minimizzare e della quale, invece, oggi sono chiare le responsabilità in moltissimi fatti di sangue accaduti in quegli anni, oltre ai tanti agganci con settori deviati dei servizi segreti.
La strage di Bologna, dunque, ci permette di fare il punto sulla storia processuale e sulle novità emerse dalle sentenze su Cavallini e Bellini, entrambi condannati all’ergastolo. Lo sfondo di questo processo prendeva infatti in considerazione per la prima volta mandanti e organizzatori della strage.
Dei faccendieri e piduisti Gelli e Ortolani si sapeva, ma recentemente sono tornati alla ribalta alcuni nomi che sembravano appartenere a una stagione precedente, come quello dell’ex capo dell’Ufficio affari riservati Federico Umberto D’Amato e del giornalista Mario Tedeschi, già senatore in quota al MSI e direttore del “Borghese”. Oggi, dunque, la lettura della strage di Bologna avviene alla luce di un quadro probatorio decisamente più ricco e articolato, permettendo di rileggere storicamente quella tragedia nelle coordinate che più le sono proprie: non l’opera di un gruppo di ragazzi esaltati (i NAR), cioè, ma il frutto avvelenato di un’operazione che fu lungamente studiata e le cui propaggini concettuali, logistiche e tecniche trovavano riparo in uno spazio di compromissione fra apparati dello Stato, loggie massoniche e manovalanza fascista.
Chissà se sarà mai possibile, insomma, mettere la parola "fine" su quel che accadde alle 11.25 di quel sabato di agosto, quarantatré anni fa: ogni verità processuale è passibile di essere rimessa in discussione e di risentire degli umori dei tempi in cui viene espressa, anche se non dovrebbe essere così.
Certo è che per la prima volta abbiamo elementi a sufficienza per capire tutti i nodi di quella filiera insanguinata che portò alla strage.
E il libro di Paolo Morando è un tassello fondamentale per poter articolare una riflessione ampia, documentata, potente, sul cupo boato che continua a risuonare nella Storia del nostro Paese.
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