Quello che i librai non dicono

Clienti impossibili

Illustrazione di Gaetano Di Riso, 2021

Illustrazione di Gaetano Di Riso, 2021

Si sa. Sono capaci di espandere un’aura che Siddharta può solo agognare.

Incedono furiosamente verso in bancone in modalità Donne che corrono coi lupi, non salutano, non aspettano, e mentre il barista cerca indarno di moltiplicare il numero di mani a sua disposizione, erogando otto caffè in contemporanea con corredo di piattini e cucchiaino, allungano periscopicamente il collo in cerca di uno sguardo vagante del personale all’opera (sempre solo lui, in evidente affanno).

Si meravigliano di come la solo loro presenza all’interno del locale non abbia materializzato almeno un altro paio di performanti addetti al servizio e poi, tamburellando le dita in prossimità della cassa probabilmente con l’intento di suggerire un ritmo biomeccanico a cui ispirarsi, sferrano la loro amabile istanza: «Un caffè non troppo lungo schiumato macchiato tiepido con latte di mandorla. Al vetro che non sia bollente, magari. E un bicchiere d’acqua leggermente (pare che l’aggettivo si sia estinto) temperatura ambiente. Sono parecchio di fretta.»

Così come gli entomologi sanno che gli insetti sono una classe non ancora totalmente mappata all’interno degli artropodi, e che tra ortotteri e coleotteri si animano esemplari non classificati, chi lavora nel commercio è perfettamente consapevole che la specie del cliente impossibile è in costante evoluzione morfologica.

Quindi, parametrando debitamente tipologie di richieste, anche noi librai abbiamo in serbo nella nostra giornata l’avvento implacabile di almeno uno di loro.

Le reazioni plausibili sono molteplici. C’è chi, fiutando già la falcata a venti metri dal punto info, inizia a presentare sudorazioni fredde e ostruzioni intestinali, e di fronte a un’inderogabile emergenza, non può che recarsi nella location opportuna. C’è anche l’indaffarato, che dopo aver subodorato presenza potenzialmente perigliosa, comincia a corteggiare avidamente lo scaffale in cerca bramosa di titoli invenduti o inizia a macchinare l’allestimento di qualche proposta bibliografica sulla letteratura Maori del primo Novecento.

E poi ci sono i librai come me, che attendono la scure con fare fatalista. A volte quasi pruriginoso.

«Un libro bello ce l’ha?». Ovviamente è acclarato che i convenevoli renderebbero più farraginoso il raggiungimento del risultato, quindi meglio scavallarli a piè pari.

«Buonasera a lei. Credo proprio di sì. Ma dipende molto da cosa intende per bello»

«Un libro bello è un libro bello. Non c’è altro da definire.»

Sentenza che liquiderebbe come i migliori sgrassatori qualunque residua incrostazione di gusto soggettivo.

«Perfetto. Quindi cosa le piace leggere?»

«Robe non noiose. Cioè, i romanzi storici? Te li puoi tenere.»

Come se in automatico ogni accennato tentativo di contestualizzazione della trama antecedente al ’94 rendesse la lettura formalmente inaccettabile.

Chissà cosa ne penserebbero Marcello Simoni o Simon Scarrow

«I gialli le piacciono?»

«Tipo? Perché se mi dici Coso lì…te lo tiro dietro»

E qui rischiavo di impegolarmi in un distretto di mangrovie capace di risucchiarmi fino a fine turno. Perché quando il cliente chiama un autore “Coso”, una libraia sa che potrebbe impiegare il resto della sua vita a fabbricarne il nome, attribuendogli caratteristiche di altri scrittori probabilmente non viventi.

Occorreva adottare un’altra strategia. Bisognava focalizzare l’obiettivo. Partire dal poco di acquisito e proseguire su quel selciato. «Quale libro le ha lasciato il segno?»

«Beh, per esempio Quella sera dorata, ma anche Momenti di trascurabile felicità, La sovrana lettrice, Giulia 1300». Mancavano solo Follett, Ammaniti e Veronesi e poi tutto e il contrario di tutto avrebbero preso corpo su una mensola ideale.

«Ah, ecco. Gli americani polverosi? Mi posso anche suicidare. I giapponesi? Ti prego…»

Ok, era evidente che la salvezza odorasse di Europa. In questo caso restringere geograficamente il campo è già un ausilio apprezzabile. E così bisogna aggrapparsi a qualcosa, un elemento irrinunciabile che rappresenti una certezza. Due degli autori segnalati erano inglesi. In quel momento, per elettiva congiunzione astrale o forse perché sto lavorando bene sulla legge della manifestazione, incappo in un libro di faccia: Il cornetto acustico di Leonora Carrington. E qualcosa si squarcia. Ho capito che esiste in lei un varco “librariamente” praticabile. «Quindi Alan Bennett la fa sorridere. Perciò non storie di sofferenti e indigenza sparsa, ma drammi borghesi brillanti. Con tanta ironia tagliente.» A quel punto una spia si attiva sul suo volto. La stessa che ti induce a riconoscere in un universo alieno qualcuno che parla la tua stessa lingua. Da lì a qualche minuto tutto è più o meno piovuto senza sosta. Julian Fellows, David Nicholls, M. C. Beaton, Gail Honeyman. Qualcuno me lo risparmierò per la prossima volta.

Che temo, volevo dire spero, ci sarà a breve.

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