Ho iniziato a leggere Philip Roth a venticinque anni. Erano gli anni in cui scoprivo la grande letteratura, quando ancora non sapevo che gli scrittori americani sarebbero diventati la mia grande passione. Mi barcamenavo tra Saramago, Marías, Allende, Hemingway, Kerouac senza aperò approdare in quello che si potrebbe definire un “porto sicuro”, fino a che non mi capitò tra le mani Lamento di Portnoy.
La mia idea di trasgressione si era impantanata tra le pagine di Porci con le ali anni prima e, a parte qualche rimarchevole divagazione con Kureishi e Welsh, non avevo più trovato libri che solleticassero la mia curiosità di giovane lettrice. Portnoy era un personaggio assolutamente irresistibile, burlesco, scandaloso fino all’eccesso, delirante e provocatorio. Persi la testa per Roth e, come spesso mi succede, caddi a piè pari in un innamoramento letterario senza precedenti (fatta eccezione per Bukowski che però a un certo punto della mia vita, una volta dato fondo all’intera bibliografia, smisi di leggere).
Qui invece il discorso era più profondo, sentivo che sarebbe stato un "per sempre" e non mi sbagliavo, Pur con delle lunghe pause tra un romanzo e l’altro, tra una rilettura e l’altra, il mio attaccamento verso questo grande scrittore non si è mai attenuato, anzi si è rinvigorito negli anni quando un qualche evento ne ridestava le braci.
È successo tutte le volte in cui, in giro per bancarelle, mi imbattevo in un suo libro impolverato e malconcio e lo compravo anche se lo avevo già, perché chi se la sentiva di lasciarlo lì a languire sotto una pila di Miti e Harmony dalle copertine ricurve? Lui! Una pepita d’oro tra i sassolini.
Ho avuto un ritorno di fiamma nel 2015 quando, dopo aver letto il prezioso libro di Livia Manera Non scrivere di me, ho invitato l’autrice a presentare il suo memoir alla Feltrinelli di Palermo. La sua era una raccolta di interviste a scrittori e scrittrici collezionate su e giù per gli Stati Uniti.
Era un pomeriggio di luglio che per mia enorme fortuna si protrasse fino a cena; Livia mi raccontò della sua amicizia con Philip Roth, dei suoi viaggi lunghissimi e quasi sempre estemporanei per raggiungerlo nel suo appartamento nell’Upper West Side e a quello che in seguito si trasformò in un progetto grandioso: Philip Roth. Unmasked, un documentario (diretto da William Karel) che fu proiettato per la prima volta in occasione dell’ottantesimo compleanno dello scrittore, a SoHo.
Roth si divertì moltissimo a inveire contro sé stesso sullo schermo, e l’indomani telefonò a Manera: Avremmo dovuto conoscerci venticinque anni fa, - le disse, dopo che si era solennemente complimentato per il suo lavoro. – Ci avrebbe cambiato la vita
Da quell’estate di otto anni fa mantengo una vivace e interessante corrispondenza con Livia che nel corso del tempo si è rivelata, oltre che un’abile giornalista letteraria anche una sublime scrittrice a tutto tondo, curiosa, attenta, costantemente alla ricerca di nuove strade da percorrere, strade che l’hanno portata a scrivere libri di formidabile valore.
Nel 2018 uscì Perché scrivere? Saggi, conversazioni e altri scritti 1960-2013, e di nuovo entrai in quello che ormai chiamo Mondo-Roth, tralasciando tutto quello che avevo disseminato per casa: in lettura, in procinto di, in attesa, quasi finito: Roth era tornato! Tutto il resto avrebbe dovuto aspettare.
Un’altra lunga pausa, fino a ottobre 2022 quando, finalmente, la monumentale biografia ha visto la luce anche in Italia (sempre per Einaudi, sempre nella collana Frontiere e ancora una volta tradotto magistralmente da Norman Gobetti). Blake Bailey dopotutto, era riuscito a scalare questa montagna che adesso era nelle mie mani e che non vedevo l’ora di affrontare, corpo e anima.
La biografia è stato un regalo di Salvo, libraio, scrittore, amico, un regalo che non smetterà mai di sprigionare luce e bellezza. È stato uno studio cui ho dedicato un numero spropositato di giorni, settimane, una lettura spesso interrotta da puntate al pc per cercare conferme, aneddoti, semplici curiosità che volevo soddisfare. Un appuntamento giornaliero cui ho sempre tenuto fede, anche nelle giornate più piene, trovavo sempre tempo per qualche pagina, anche solo un paio prima di dormire.
Ora che sono giunta alla fine ho la sensazione di averlo, per la prima volta dopo ventisei anni, assorbito sul serio; è come se fino a questo momento lo avessi solo sfiorato attraverso i suoi romanzi e soltanto adesso, dopo quasi mille pagine in cui sono completamente compenetrata nella vita sua e delle persone che, nel bene e nel male, ne hanno fatto parte, io lo avessi mangiato. Se mi è permesso un paradosso che gli avrebbe strappato una risata, la sensazione più vicina a quello che sto cercando di dire l’ho provata a dieci anni, quando per la prima volta mangiai l’ostia e con gli occhi serrati mi sforzavo di immaginare Gesù che mi scendeva giù per la gola fino al cuore.
Oggi, dopo aver chiuso questo libro, sento di non dover fare alcuno sforzo, Philip Roth fa parte di me in modo definitivo.
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