Per le tre ore introduttive del corso di "Intensità", il primo autunno alla Scuola Holden, è venuto con un paio di lenti scure sul naso a parlarci di corpi e riflessi nelle pozzanghere. Voleva che uscissimo dalla lezione ricordandoci che esistono umani più sensibili di altri, e sono loro che chiamiamo artisti, perché capaci di sentire il mondo vibrare nei punti in cui nessun altro ha pensato di guardare. Una pozzanghera, i riflessi.
Era un novembre indocile, e Alessandro Baricco ci spiegava sotto lenti da sole («Non fraintendete, ho la congiuntivite») come i libri siano carne oltre che parole, come un personaggio abbia un corpo e una voce, che poi sono gli strumenti con cui stiamo nel presente, lo attraversiamo, proviamo a cambiargli forma.
Lo ascoltavo insegnare, in una scuola immaginata trent’anni prima per ossigenare talenti, suggerire un metodo a chi pensa che scrivere sia movimento anarchico e disarticolato e poi dirgli che sì, serve la tecnica, ma l’altra metà non puoi rubarla. Si chiama stile, o anche voce, lingua.
Lo stile è di pochi. Sgorga da un’intimità altissima e misteriosa con un particolare materiale. Non si può insegnare, lo si possiede. È un evento. Accade quando il linguaggio, qualsiasi linguaggio, cessa di essere uno strumento esterno e diventa prolungamento di un corpo. Mano, non martello. Respirazione
Ho letto La via della narrazione a dicembre, nel tempo di un volo Milano-Madrid, e mi ha restituito la bellezza di quella prima lezione. Ci rifletto ora, ma è come se ogni suo romanzo, saggio, lettura, opera di teatro, monologo vada guardato come pezzo di una risposta alla collettiva, ontologica domanda che è: cosa significa scrivere? Perché, da un passato remotissimo, facciamo durare la stessa primaria necessità di raccontarci le cose?
Mi rendo conto che parlare di lui è assai poco comodo, per più di una ragione, non fosse per la singolarità della persona, misto di fascinazione, nonchalance, schiettezza. Il fatto è che puoi amare o no successi editoriali come Seta, Castelli di rabbia, Oceano mare, I barbari, City, Emmaus o Mr. Gwyn, ma su una questione si finisce tutti per concordare: c’è qualcosa, là dentro. Di pulsante, estetico, quadrato, disinvolto. Segui il pittore che s’ingegna a disegnare il mare con il mare, centinaia di bachi in viaggio lungo la via della seta, qualcuno che grida l’America, e non puoi evitare di pensare: è strano, ci sto dentro. Ecco, penso abbia a che vedere con questo: il gusto mentale di intravedere, perfino nelle pagine meno decifrabili, qualcosa dello scrivere e qualcos’altro di noi, la nostra grammatica esistenziale.
Si intuisce, d’altronde, perché a un certo snobismo intellettuale non sia spesso andato così a genio. Era tollerabile usare la televisione – vedi Pickwick. Del leggere e dello scrivere o Totem, anni Novanta – per convertire la letteratura in materiale pop, com’erano le canzoni o un certo cinema; apparire in t-shirt e sminuzzare Gadda, interessarsi al modo in cui ama Cyrano, elencare per quali buoni motivi Madame Bovary è un capolavoro? Si poteva o no democratizzare, allargare, semplificare?
Scrivere, dicevamo, equivale a chiedersi quanto abbiamo capito della vita. È così per il pamphlet a frammenti Quel che stavamo cercando, modo lieve, baricchiano, per indagare lo choc pandemico, o per The Game, giro attorno alla poderosa torsione mentale che è stata la rivoluzione digitale, con le mutazioni del comportamento umano, i balzi sovversivi di un umanesimo che, per spazzare via le macerie del ’900, si risemantizza a partire da una postura nuova: uomo-tastiera-schermo.
«Qualsiasi oltremondo digitale, dall’ambiente di Facebook a Call of Duty, c’entra in qualche modo col gesto che per secoli abbiamo usato per scrivere libri, fabbricare storie, dipingere quadri, scolpire blocchi di pietra e comporre musica. Cosa cercavamo, facendolo? Cercavamo di completare la creazione duplicando il mondo e traducendolo in un linguaggio coniato da noi. Cercavamo un modo di mettere in rete quello che avevamo capito della vita, in una sorta di webing ante-litteram. Ottenevamo così di spalancare il tavolo da gioco spingendo il reale a girare in un sistema sanguigno a due cuori: mondo e oltremondo».
Alla lezione di "Intensità" del primo autunno a Torino, Alessandro Baricco ci incoraggiava ad “accorgerci del corpo”. Ricordarsi di avere un peso, perché la scrittura respiri, muova energia: sarebbe passato tempo prima di arrivare a metabolizzare il concetto. Però fino ad allora mi ero fermata a guardare molte pozzanghere inutili e, come me, altri in quella sala. Ci siamo sentiti capiti, forse questo. Ci siamo fidati, perché lo avevamo già fatto, arrivando là.
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