Un anno fa l'assalto alla CGIL di Roma

Il 9 ottobre 2021, la sede nazionale della Cgil in corso d’Italia a Roma, nei pressi del parco di Villa Borghese, fu assaltata da esponenti di Forza nuova e di alcune frange del movimento no vax nel corso di una variegata manifestazione contro il green pass, la cui esibizione da lì a una settimana sarebbe diventata obbligatoria in tutti i posti di lavoro, pubblici e privati. Il sindacato era accusato di non difendere i lavoratori (accusa che nel discorso pubblico oscurò del tutto come nei mesi precedenti, per esempio, molti delegati di varie organizzazioni avessero predisposto scioperi per ottenere dispositivi di protezione dalle aziende che volevano risparmiare sulla pelle dei lavoratori). Gli aggressori penetrarono a forza negli uffici compiendo poi atti vandalici all’interno. Per fortuna, la rabbia si scatenò solo contro le cose, ma le immagini e i filmati fanno davvero impressione. «Un attacco squadrista» a danno della «sede delle lavoratrici e dei lavoratori», dichiarò poco dopo il segretario nazionale, Maurizio Landini.

A un anno di distanza, però, vorrei suggerire di ragionare invece sui segnali allarmanti specifici del nostro tempo e caratteristici dell’estrema destra di oggi, anziché limitarsi a evocare lo spettro dei manganellatori – tanto più in prossimità del centenario della marcia su Roma, e delle molte suggestioni che l’accompagnano. Il richiamo allo squadrismo che infuriò dal 1920, e che spianò la strada all’ascesa del Duce con centinaia di attentati contro sedi sindacali e delle leghe, giornali, case del popolo, camere del lavoro, mutue, cooperative, rischia di essere fuorviante. Propongo quindi due spunti di riflessione diversi.

Primo, gli assalitori, come il resto dei manifestanti, scandivano rabbiosamente il grido «li-ber-tà, li-ber-tà». Il terreno d’incontro privilegiato tra no vax e molti no green pass (istanze che si sono sovente mescolate, come in quella manifestazione, ma non sempre sovrapponibili) e le frange di estrema destra sembra essere stata proprio quell’idea di libertà incarnata nella sua forma più pura e radicale dai trumpiani che assaltarono Capitol Hill, e sempre più diffusa anche dal nostro lato dell’Atlantico. Una libertà fortemente ostile allo Stato, ma soprattutto profondamente egoista: come ragionava Sergio Bologna all’epoca, è la libertà del singolo «di fare ciò che vuole per il proprio utile, non solo al di fuori di ogni regola, ordine e principio istituzionale ma anche al di fuori della considerazione per l’altro da sé [...] senza preoccuparsi se il suo agire può essere di vantaggio o di detrimento di altri». Un’idea di libertà, dunque, che è l’esatto contrario della «idea di solidarietà che sta alla base dell’esistenza stessa del movimento operaio, del sindacato, della sinistra». E questo è uno dei virus più pericolosi che circolano nella società oggi, perché mina il terreno su cui si possono affrontare i problemi colossali del nostro tempo, dal riscaldamento globale alla crisi energetica, all’impennarsi delle disuguaglianze, che richiedono uno sforzo collettivo e sacrifici in nome del bene comune.

Secondo, il fatto che l’aggressione sia rimasta un fatto pressoché isolato, non è di per sé rassicurante. Per certi versi, infatti, è un indicatore di quanto le organizzazioni dei lavoratori siano ormai quasi irrilevanti (un declino di cui i sindacati sono peraltro corresponsabili, per aver privilegiato pensionati e garantiti, dimenticando precari, stagionali, atipici, partite iva e quant’altro). Non a caso, a un anno dall’attacco, la Cgil ha indetto una manifestazione per «rimettere al centro della discussione la persona e il lavoro». Il confronto storico è impietoso: la mostruosa escalation squadrista fu infatti la risposta violenta, sponsorizzata da agrari e industriali, al trionfo elettorale dei socialisti nel 1919 e al dispiegamento di forza dei lavoratori nel biennio rosso. Adesso i lavoratori sono tremendamente esposti e vulnerabili – la tragica morte del rider Sebastian Galassi è l’ennesima, terribile conferma dello stato delle cose. La spinta repressiva il più delle volte non è nemmeno necessaria (anche se, negli ultimi anni, si sono registrati segnali preoccupanti nella gestione dell’ordine pubblico). Le cose minacciano solo di peggiorare: nella sua prima uscita pubblica davanti alla Coldiretti, infatti, la premier in pectore Giorgia Meloni ha annunciato che non intende «disturbare» chi «crea ricchezza» e «lavoro» (a quali condizioni non si sa). E sindacati, associazioni e coalizioni di lavoratori, beh... storicamente hanno “disturbato” parecchio! In questo panorama scoraggiante, allora, l’ingresso in Parlamento del sociologo e sindacalista Aboubakar Sumahoro, storico leader dei braccianti nelle lotte contro il caporalato, diventa un segnale ancora più importante. Un invito a concentrarci sulle colossali sfide del presente, anziché sugli angosciosi scenari del passato.

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