La morte di Cesare Zavattini ci colpisce come lettori e spettatori: sembra una notizia inventata, ci pare che l'autore non avrebbe smesso mai di conversare, traendo fuori dall'inesauribile armadio dei suoi ricordi gli scampoli di una storia autentica del cinema italiano
Un test veloce: a cosa pensate se vi dico “Zavattini”? A Sciuscià, Ladri di biciclette, Miracolo a Milano o Umberto D? Alle celebri riviste satiriche Bertoldo e Marc’Aurelio o a Grandi Firme? Allo straordinario romanzo Parliamo tanto di me o I poveri sono matti o ancora a Straparole? Insomma, vi viene in mente lo Zavattini sceneggiatore, giornalista o scrittore?
O, semplicemente, pensate al Neoralismo?
Sono trascorsi 120 anni dalla sua nascita (avvenuta a Luzzara il 20 settembre 1902), i suoi contemporanei sono tutti scomparsi, il tempo in cui il suo lavoro era moderno, innovativo, anticonformista, a tratti dirompente è passato da un pezzo, ma il nome di Zavattini e il suo volto rotondo e simpatico, sono sempre lì, indimenticati.
Così come frenetica e irrefrenabile - ma a volte non del tutto coerente e purtroppo dispersiva, incerta e frammentata - fu la sua vena creativa, così non fu univoca la voce della critica nei suoi confronti.
Zavattini è stato, nel bene e nel male, un punto focale del cinema italiano, ma come scriveva Stefano Reggiani in occasione della sua morte: «Forse solo nella sua mente il neorealismo è una poetica ordinata, negli autori che hanno fatto grande la scuola neorealistica (Luchino Visconti, Vittorio De Sica, Roberto Rossellini) la nuova creatura di poesia aveva sorrisi e ironie diversi. Oggi, a distanza di un tempo conveniente, si ritrova nel neorealismo un elemento mellifluo e cronachistico che forse dobbiamo imputare proprio a lui».
Cesare Zavattini entra nel cinema nel '35, scrivendo con Mondaini il racconto che poi diventerà soggetto di Darò un milione (per la regia di Mario Camerini). «Non credo di essere entrato nel cinema con una coscienza critica», dirà in seguito.
Ma è vero che nella sua intensa osservazione della vita quotidiana (fulcro del neorealismo) e dei fatti comuni, l'interesse più profondo di Zavattini è per i poveri, per gli umiliati e offesi, visti non un distacco seppur affettuoso di chi appartiene ad altro ceto e cultura, ma con la semplice e schietta partecipazione di un loro pari. Per contro, o forse per certi versi coerentemente, la sua vocazione stilistica è breve, essenziale, quasi ermetica, per nulla “popolare”.
Cesare Zavattini è il padre di tutti noi. È la più grande macchina poetica di invenzioni di questi primi ottant'anni di cinema
Dicevamo la critica, non sempre generosissima con lui. Gianni Rondolino scriveva «se è vero che Zavattini è stato uno dei padri del neorealismo e l'ispiratore d'un cinema di pronto intervento, è altrettanto vero che alla sua opera si è richiamato il cinema d'evasione, la cosiddetta commedia all'italiana. In questo senso lo “zavattinismo” può anche essere considerato l'altra faccia dell'impegno, la negazione del cinema critico».
«Pateticamente, provincialmente persino, Cesare Zavattini aveva la mattana, ma anche la coscienza, di essere un avanguardista non in stretto senso letterario ma nelle idee, negli atteggiamenti, nei comportamenti, nelle sue sublimi infantilità, che tuttavia erano pur sempre e di colpo sregolate ma fertili e contagiose genialità». Così scriveva di lui l’amico Giancarlo Vigorelli.
Parliamo tanto di me: quel primo libro fu una bomba. Pancrazi gli dedicò due colonne sul Corriere della Sera e consacrandolo al vertice degli umoristi non soltanto italiani.
Seguirono nel '37 I poveri sono matti, di cui Papini scrisse che era «il libro più sconcertante uscito in Italia negli ultimi venticinque anni». Nel '41 uscì Io sono il diavolo, una raccolta di racconti. Ma anche se per i suoi libri aveva un attaccamento forte “con puerile superbia e sgomenta umiltà, il padanissimo Za non è mai stato un letterato da tavolino”. A dimostrazione di ciò suggeriamo di sfogliare Un paese, libro realizzato nel 1955 a quattro mani con il fotografo Paul Strand, ancora oggi edito da Einaudi.
Di Zavattini autore ricordiamo le parole di Valentina Fortichiari, grande studiosa del suo lavoro e curatrice di libri fondamentali come La pace. Scritti di lotta contro la guerra, una raccolta di testi per comprendere il rapporto di Zavattini con il grande tema che ha permeato tutta la sua opera artistica: la pace; Diari. Vol. 1: 1941-1958, un coacervo di temi, personaggi, azioni, progetti, ricordi; Cinquant'anni e più. Lettere (1933-1989), le lettere tra Bompiani e Zavattini, testimonianza di un'amicizia tra due uomini diversi per formazione e carattere, eppure accomunati da eguale impegno intellettuale, rigore etico, coscienza civile:
In mezzo a tutti i grandi editori con i quali Za ha avuto a che fare (con Mondadori e Rizzoli era a libro paga, Bompiani aveva un diritto d'opzione su tutta l'opera e gli pubblicò quasi l'intero corpus letterario), lo univa forse a Giulio Einaudi, unico fra gli altri, una comunanza sul piano ideologico-politico
Certamente non parliamo del film più conosciuto di Zavattini, non può essere considerato il suo capolavoro, ma vi consigliamo di vedere (o rivedere) Il Giudizio Universale, con la regia di Vittorio De Sica, di cui firma soggetto e sceneggiatura. Con attori popolarissimi (Sordi, Gassman, Manfredi, Stoppa, Fernandel, Rascel, Mangano, Aimée, Borgnine solo per citarne alcuni) tratteggia una sorta di chiamata divina al Giudizio ambientata a Napoli, in cui ognuno deve fare i conti con colpe e meschinità tanto gravose nel momento della paura quanto facili da dimenticare subito dopo. Surreale e a tratti divertente è il colpo di coda di quel Neorealismo che Za ha visto nascere e morire.
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