Era un martedì sera, il 4 ottobre 1983. Per la prima volta i televisori di mezza Italia, alcuni ancora in bianco e nero, spararono in faccia a milioni di italiani di ogni età una potente miscela di battute da avanspettacolo di scuola soprattutto milanese, qualche intermezzo di cabaret satirico sulla politica quotidiana e una buona dose di intrattenimento da commedia sexy anni Settanta, edulcorato, ma non troppo. Nasceva Drive In, il programma tra gli altri di Antonio Ricci che avrebbe cambiato per sempre la TV italiana. E i suoi spettatori.
Quando le gag di Gianfranco d’Angelo ed Ezio Greggio sbarcano nei salotti degli italiani il panorama televisivo del Belpaese stava subendo la più radicale delle trasformazioni dalla sua nascita, nel lontano 1954. La liberalizzazione, sofferta, delle frequenze televisive, stava sgretolando il monopolio RAI proprio mentre la TV di Stato era incastrata in un travagliato processo di trasformazione di fronte alle sfide della nuova “TV commerciale”.
Mentre viale Mazzini era impegnata ad affrontare la mai risolta questione dell’equilibrio tra educazione popolare e intrattenimento, sfornando programmi come “Quark” (1981) o “La straordinaria storia d’Italia” (1983) il nascente impero berlusconiano travolse i canoni del buon costume televisivo mandando in onda in prima serata figure femminili più che succinte, battutisti dai sempre più accentuati toni sessuali e una presa in giro delle maggiori figure politiche e istituzionali del paese che, più che sotto attacco, finivano blandite, caricaturizzate e rese riconoscibili; in una parola, popolarizzate.
Uno iato talmente ampio da creare due differenti tipi di pubblico e due diverse missioni concorrenti da parte di quella che sarebbe diventata la diarchia del sistema formativo e informativo italiano: da un lato la necessità, a volte paternalista, di assolvere alla funzione di guida culturale del paese, che la RAI porta avanti con fatica e con sempre maggiori concessioni al mercato dell’intrattenimento spicciolo; dall’altra un assalto all’arma bianca alle pulsioni più semplici e immediate della platea dei telespettatori che ha come scopo principale gli ascolti, base commerciale degli introiti pubblicitari.
Spaccato così grossolanamente, il panorama dell’offerta televisiva viene facilmente, dallo stesso pubblico, reinterpretato con due categorie forse semplicistiche ma significative: da un lato c’è la TV “noiosa”, quella che si sforza di impartire lezioni, dai tempi più lenti e con contenuti più densi; dall’altra la TV “divertente”, quella che punta solo a intrattenere, alleggerire, a far ridere di tutto, anche di quello su cui ci si dovrebbe soffermare.
Drive In costituisce il primo, potente esperimento mediatico in Italia di assuefazione antropologica a un restringimento dei contenuti e alla sollecitazione delle forme meno complesse e più dirette di divertimento. Si ride, guardando Drive In, in un modo molto semplice e diretto: non c’è bisogno di particolari approfondimenti per godersi tormentoni come “ce l’ho qui la brioche!” di Zuzzurro e Gaspare, per comprendere la sguaiata frustrazione del memorabile Vito Catozzo di Giorgio Faletti che esclama “Porco il mondo che c’ho sotto i piedi!” o per assistere agli sforzi sovrumani di un giovane Gianfranco D'Angelo che cerca di smuovere un imperturbabile cocker al grido di “Has, Fidanken!”.
Diminuendo al massimo la complessità e puntando ogni volta di più sulla battuta facile Ricci e compagni assecondano gli umori di un paese impegnato a raccontarsi come “rifluente” rispetto alla terribile e non ancora conclusa stagione della violenza terrorista e mafiosa e desideroso di staccarsi da quella che, significativamente, era stata definita “la stagione dell’impegno”. Con i suoi molti comici dall’ostentata parlata lombarda e le situazioni che inquadrano l’evoluzione della società come il bocconiano calabrese interpretato da Sergio Vastano (“è chiaro ‘stu fatto?”) il programma ideale per gli abitanti della Milano da bere che impazza in quegli anni, che vivono del mito del lavoro e mitizzano altrettanto lo svago, che deve essere leggero quanto pesante è il ritmo della giornata. Drive In sembra voler interpretare la nuova Italia del mini-boom degli anni Ottanta, e in realtà fa di più: le dà riconoscibilità, dignità, identità.
I tormentoni sfornati a velocità sempre crescente divengono la cifra di un’intera classe sociale, quella media, che in Italia non veniva inquadrata ed esaltata con tanta foga dal tempo del fascismo. La piccola borghesia dalla capacità di spesa ancora limitata grazie a quelle risate non si sente più costretta ad aderire a modelli culturali imposti: i comportamenti di quotidiana pochezza non sono più censurati, ma anzi esposti, insieme con le battute da caserma e le manate sul sedere di donne sempre e comunque sorridenti.
Dalla seconda stagione, nel 1984, Drive In passa alla domenica sera, divenendo ufficialmente un programma di intrattenimento per famiglie. Questa collocazione nel palinsesto ne fa uno dei programmi di punta della produzione Fininvest, mentre i tipi della “scuderia Ricci” debordano dagli schermi televisivi per andare a popolare i nascenti cinepanettoni e più in generale caratterizzando sul medio periodo l’offerta di intrattenimento visivo italiano.
Una rivoluzione dall’alto verso il basso che è destinata a lasciare solchi profondi nell’immaginario collettivo. Non possono passare senza danno i modelli esibiti di un’umanità alla disperata ricerca di un divertimento che più che semplice risulta semplicistico. Il modello familiare del pur simpatico Enrico Beruschi, con la moglie tirannica (Margherita Fumero) impegnata a vessarlo mentre cerca sollievo tra le grazie di qualche ragazza è ad esempio un classico modello patriarcale: il maschio che ha diritto a sfoghi esterni all’ambito coniugale contro una moglie non più attraente che diviene bieca carceriera. Le figure dei non bianchi che si trovano negli sketch girano tutte attorno allo stereotipo coloniale del selvaggio o dello schiavo alla Via col Vento. Le varie Lory del Santo e Carmen Russo, esagerando con pose trasognate e sguardi vuoti la figura della “bella oca”, distruggono in cinque stagioni di palinsesto decenni di lotte femministe.
Le varie imitazioni di De Mita, Spadolini e Andreotti che appaiono a corredo dei commenti alla situazione politica di allora non sono, se non a uno sguardo disattento, degli esercizi di satira verso il potere; si tratta invece di un addomesticamento del tema politico attraverso una caratterizzazione sui corpi, più che sui temi, della politica. I politici dileggiati diventano ben presto icone e, mentre i contenuti scivolano in secondo piano, a protagonizzare la scena sono i corpi, in un assaggio di personalizzazione del potere di cui proprio il padrone di Ricci, Silvio Berlusconi, sarà il prodotto più eclatante.
Sia chiaro: Drive In non inventa nulla: patriarcato, razzismo e sessismo sono elementi immancabili dell’immaginario collettivo italico. Il programma però, e la TV che lo contiene, prendono questi comportamenti socialmente sanzionabili e li sdoganano a normalità, anzi, a norma, grazie alla straordinaria potenza pervasiva di una televisione colorata, chiassosa e scintillante.
Forse si potrebbe ritenere esagerato addossare così tante responsabilità a un solo, per quanto iconico, programma televisivo. Eppure, è impossibile non imbattersi perfino adesso nelle cicatrici di quel modo di comunicare che è ancora oggi caratteristico di una maniera di intendere l’intrattenimento.
La TV commerciale targata Drive In ha appunto fatto questo: ha costruito e propagato un linguaggio scanzonato, che cerca l’applauso in maniera spasmodica e che per questo è costretto a spostare ogni volta più in là il confine del buon gusto per stupire. Questa propagazione, in una logica capitalista, ha costretto al ribasso l’offerta di tutti gli altri protagonisti della scena dei media italiani: non solo la RAI, che ha rincorso, spesso nemmeno riuscendoci, le punte avanzate del trash di intrattenimento privato, ma anche la carta stampata e la radio. Perché, parafrasando la legge di Gresham sulla moneta, l’intrattenimento cattivo scaccia sempre quello buono, specie se quello cattivo sul momento paga meglio in termini di ascolto.
E questo linguaggio si è ben presto instaurato come normale all’interno della società stessa: la ridicolizzazione non critica della figura del politico di professione, la distruzione dell’immagine femminile in ogni sua possibile declinazione, la costruzione di un senso identitario popolare che esclude e ridicolizza sistematicamente il non conforme (il “non bianco”, “non etero”, “non omologabile”) sono tutte eredità la cui origine possiamo trovare anche in programmi che, sotto la bandiera del disimpegno, apportavano una serie di modifiche fondamentali al concetto stesso di senso comune.
Una modifica antropologica tale da farci chiamare ancora oggi “telegiornale” un programma serale, pensato da Ricci ed emanazione diretta di quella TV, in cui delle ragazze appena maggiorenni ballano poco vestite su una scrivania. La generazione Drive In è oggi quella che sostanzialmente occupa le posizioni preminenti nell’ambito dell’informazione, della politica e della cultura di questo paese. E accedendo a un qualsiasi mezzo di informazione oggi non si può fare a meno di notarlo: per questo, pur essendo l’origine di una TV “leggera”, quello di questi giorni è un anniversario “pesante”.
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