Ufficialmente si è conclusa oggi la ventisettesima COP, quest’anno cinta in un’area protetta sulla costa egiziana, presso l’esclusiva località turistica di Sharm el Sheik, sotto l’egida del governo autoritario guidato dal generale Al-Sisi e (per non trascurare i “signori” della business community) sponsored by Coca-Cola.
Ventisette. Un monito del fatto che sono 27 anni che ci proviamo, o meglio che ci stanno provando (a lottare contro la crisi climatica), e 27 anni che non ci stanno riuscendo. Dai tempi in cui i cambiamenti climatici sembravano ancora una crisi grave ma remota, a quelli attuali in cui i suoi effetti stanno già colpendo gran parte del mondo. Ciononostante, le Conferenze delle parti (COP), che ogni anno riuniscono gli stati firmatari della convenzione ONU sui cambiamenti climatici elaborata a Rio nel 1992 (UNFCC) restano forse l’unico luogo ancora efficace, in cui si possano su un piano paritario (o forse solo meno diseguale di altri) confrontare piccoli e grandi Stati del mondo nel definire le strategie per contrastare la crisi climatica.
Fu la COP21 di Parigi del 2015 a produrre una delle più grandi vittorie dell’ambientalismo degli ultimi decenni: l’impegno degli stati firmatari a mantenere l’aumento della temperatura media globale sotto i 2°C, facendo il possibile per non sforare la soglia di 1,5°C (tra l’altro messa purtroppo in discussione in quest’ultima COP): oggi sappiamo che per gli attuali percorsi intrapresi dalla comunità internazionale, non riusciremo, se va bene, a stare sotto i 2,8°C.
Lo stesso concetto di just transition, emerso nel movimento operaio americano del XX secolo per disinnescare il conflitto ambiente-lavoro, fu accolto come “imperativo” nel preambolo degli Accordi di Parigi del 2015 e smentito, solo 3 anni dopo, in una stessa Francia che alle politiche climatiche macroniane (una transizione dall’alto incurante dei bisogni popolari) ha risposto con i gilet gialli.
Un luogo di successi e fallimenti, ma che sta lì a ricordarci, pur nei limiti delle sue capacità, che l’unica dimensione atta a colpire, secondo la definizione proposta da Luigi Ferrajoli, i “crimini di sistema” che stanno distruggendo e devastando il mondo dal punto di vista ambientale, sociale, economico e sanitario, è quella che riesce a superare le singole identità nazionali. Da qui la proposta di un costituzionalismo globale.
Certo molto di più di qualche agenzia delle Nazioni unite, bensì il tentativo di rifarsi alla concezione della costituzione, in senso hobbesiano, quale “patto di convivenza tra differenti e disuguali”: l’unica strada per superare l’inadeguatezza spaziale e temporale delle politiche delle democrazie odierne è quella di immaginare, in un realismo bilanciato dalla necessità storica di salvare l’umanità sul pianeta, una Costituzione della Terra (dal titolo omonimo, Per una Costituzione della Terra, il saggio di Luigi Ferrajoli edito da Feltrinelli).
Per adesso nelle COP si immagina ancora soltanto una transizione dall’alto, fatta di sacrifici e imposizioni, anche attraverso la spada di Damocle del ricatto occupazionale, verso le fasce più deboli della società. Scopi ultimi l’elettrificazione e la decarbonizzazione perseguendo l'obiettivo, finora mai raggiunto, di riduzione delle emissioni di CO2 (unitamente ad una inconciliabile crescita infinita di produzione di merci).
“L’ingrediente segreto che dà alle conferenze sul clima un valore non cerimoniale è esattamente questo: la partecipazione della società civile, il peso dello sguardo esterno, la pressione per un risultato reale” - ha scritto Ferdinando Cotugno in Primavera Ambientale, un saggio appena uscito che dipinge abilmente la dimensione politica della lotta per il clima e le storie e prospettive dei movimenti che in essa si muovono.
Quello che è mancato in questa COP è stato proprio l’apporto della società civile, le centinaia di migliaia di manifestanti di Glasgow della scorsa COP26, che sono funzionali a bilanciare con le istanze di una transizione dal basso le derive tecnocratiche e mercatocentriche di una Conferenza delle parti.
A ricordare, mediante la nozione di giustizia climatica (a proposito di questo abbiamo un bellissimo articolo di Serenella Iovino), che le scelte prese dagli organi di vertice degli stati nazionali e dai massimi esponenti della società dei mercanti globale, ricadono necessariamente sulle spalle di miliardi di persone normali che oltre a scongiurare la fine del mondo vorrebbero pure arrivare alla fine del mese.
La stessa “primavera ambientale” immaginata da Cotugno aggiunge una nuova direttrice a quella, storicamente prevalente e già citata, di giusta transizione. Essa non deve rimanere solo un inevitabile sforzo di impedire che la transizione ecologica ed energetica travolga classi sociali e lavoratori impiegati in settori sacrificabili. Deve certo essere anche e soprattutto uno strumento di redistribuzione della ricchezza e del potere in una società affetta da disuguaglianze ed erosione dei sistemi democratici.
Per arrivare però alla “primavera ambientale” del 2030 serve, come suddetto, aggiungere un tassello: la giusta transizione intesa, ancor prima che come lotta politica, come atto comunicativo. Una ricerca di alleanze fuori dalle bolle, che faccia tesoro dei passi avanti fatti dal movimento per il clima in questi anni, rompendo però frontiere generazionali e (per quanto politicamente praticabile) di classe.
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