È grande la curiosità di scoprire ciò che sarà della "grande alleanza per il merito" invocata dal neo-ministro Valditara. La sua nomina, oltre che per le più che opinabili posizioni nel tempo assunte, ha fatto discutere per la ridenominazione stessa del Ministero da lui occupato, che all’istruzione ha visto affiancarsi il merito, in una quasi naturale complementarietà e parificazione assiologica.
Occorrerebbe allora indagare che cosa storicamente si è inteso per società costruite sul merito e comprendere da che ragioni ha mosso, e muove ancora oggi, l’uso politico – invero bipartisan (al di là dell’ultimo e piuttosto simbolico battesimo del dicastero) – che viene fatto del concetto di merito.
Verrebbe incidentalmente da notare che oggi non resta che un'inferenza del merito dal risultato: nei fatti trae giovamento chi possiede e controlla ricchezza privata, e per il solo fatto di averla, deve essere rispettato e lasciato libero di farla fruttare. Al bando quindi le imposte di successione e la progressività fiscale del secondo dopoguerra.
Qui però, più umilmente, ci gioveremo soltanto di ciò che la letteratura, con il suo sguardo premonitore e anticipatore delle trasformazioni sociali, ha intravisto nella costruzione di una società meritocratica. Due grandi romanzi, pubblicati negli anni '50 del secolo scorso, indagano mediante la forma della distopia (ossia dell’utopia negativa) le conseguenze dell’assunzione del principio meritocratico all’interno delle strutture politiche e di organizzazione sociale.
Il secondo in ordine di tempo è molto noto: trattasi de L’avvento della meritocrazia di Michael Young, dirigente laburista inglese che negli anni delle nazionalizzazioni e del dibattito sulla scuola media unica (dominati in Europa dal dogma socialdemocratico dell’uguaglianza delle opportunità), dipinge la meritocrazia come uno scenario cupo. Anche e soprattutto laddove riuscisse davvero a realizzarsi e non fosse, come oggi, un mero strumento retorico per incolpare chi colpe non ha.
In un tempo in cui ogni posizione sociale non si acquista più per ricchezza o per sangue, ma solo per esatte e inappellabili misurazioni del QI, a chi sta in basso non resta argomento per impugnare la legittimazione dell’esistenza di classi superiori.
I dominati si rassegneranno quindi al destino subito per nascita.
Non devono forse ammettere di avere una posizione inferiore non, come nel passato, perché gli venivano negate le possibilità, ma perché sono inferiori? Per la prima volta nella storia umana l’uomo inferiore non ha a portata di mano alcun sostegno per il suo amor proprio
I parlamenti, al pari dei sindacati, non servono a niente. Le ultime pagine si chiudono narrando i tratti di una incipiente quanto violenta rivolta popolare.
Altra cronaca tecno-meritocratica (anch’essa finita nel sangue), è quella del romanzo fantascientifico Piano Meccanico di un autore che per la fantascienza non amava passare alla storia: Kurt Vonnegut, su cui vi invito a leggere l'approfondimento realizzato in occasione del centenario della nascita.
Su questo testo, meno noto, merita forse soffermarsi più a lungo.
In un futuro che nel 1952, l’anno in cui il libro fu pubblicato, non sembrava poi molto lontano, la meccanizzazione ha trasformato l’organizzazione sociale.
Da un lato stanno manager ed ingegneri, scelti per alto QI, che sviluppano, guidano e coordinano le macchine che hanno sostituito il lavoro umano, non solo quello più usurante, ma soppiantando con costanza quasi ogni professione che richieda anche un minimo grado di manualità.
Dall’altro lato, con segregazione gerarchica oltre un simbolico fiume, vive chi non può più lavorare. Esclusi da un’economia che certo li ha a lungo oppressi, oggi, per non poter più parteciparvi «cominciano a scoprire quasi tutti che quello che rimane è quasi zero».
Non resta che scegliere di entrare nel corpo dei “relitti e puzzoni” che bonifica e sistema le strade, o di prendere la via dell’esercito che combatte ormai guerre tanto dominate da macchine, da aver reso rara e ingloriosa la morte in battaglia.
È Paul Proteus, direttore degli stabilimenti di Ilium dall’alto QI, figlio di uno dei fondatori della meccanizzazione che ha sostituito la tecnocrazia al potere politico, a prendere le redini di una rivolta che fallirà.
Stanco di una misurazione oggettiva, dell’attenta valutazione che governa e domina anche oggi il nostro dibattito pubblico, comprende che la vita umana è fatta anche di mediocrità e che i tentativi di sostituirle la sovranità del know-how si sono risolti in una gerarchizzazione «che usa la macchina come unità di misura dell’uomo».
Anche qui la meritocrazia realizzata ed efficiente, che sussidia chi ha relegato in una marginalizzazione sociale e spirituale in nome dell’efficienza e della produttività, è ben lontana da quella meramente retorica dei nostri tempi.
Ciononostante è odiosa tanto quanto un mondo afflitto dalle disuguaglianze sociali ed economiche come è quello di oggi. Forse per certi versi di più: in entrambi i casi, dinanzi alla certificazione oggettiva di una superiorità intellettiva, abbiamo visto come diventi impossibile contestarne la conseguente superiorità sociale. Non ci sono più rampolli laureati nelle università confindustriali e muniti di bourdiano capitale sociale che è possibile contestare ed odiare; al comando stanno i più intelligenti, estratti anche dalle classi più basse.
Quindi le alternative all’eterno presente – e alcuni (anche satirici) romanzi ce lo hanno ampiamente narrato – non sono poi tutte uguali. Talora merita ricordare che il QI non è tutto (sperando che il valore di un uomo possa prescindere dal suo quoziente intellettivo e dalle sue prestazioni) e che «le persone più infelici di questo mondo sono le più intelligenti». E che i dominati, lo siano dal denaro, dal sangue, dalla tecnica o da un combinato di vari fattori, restano tali anche se è la legittimazione della disuguaglianza a mutare.
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