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L'intervista a Shlomo Ben-Ami

© Casa de América - Flickr

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Dagli archivi di Wuz, riproponiamo un'intervista a Shlomo Ben-Ami, in visita a Milano, in cui racconta della situazione tra Israele e Palestina alla fine del mandato di Bush, passando per il ruolo della Turchia e dell'Europa.

La pace tra arabi e israeliani è stata più volte a portata di mano, ma è sempre sfuggita per la debolezza degli establishments politici, incapaci di far accettare sacrifici e compromessi alle rispettive popolazioni.

Shlomo Ben-Ami

Questa lucida e inequivocabile diagnosi è di Shlomo Ben-Ami, uno dei politici israeliani più coinvolti nel difficile processo di pace. Nel 1991 ha partecipato alla Conferenza di Pace di Madrid; nel 2000 era a Camp David come ministro degli Esteri del governo Barak. Si è ritirato dalla politica attiva in contrasto con Sharon, di cui non ha approvato il disimpegno unilaterale: È stata una mossa per aggirare il negoziato. Non essendo disposto a cedere su nodi come lo status di Gerusalemme e il rientro dei profughi, ha preferito definire i confini permanenti di Israele in modo unilaterale, con il rischio di scatenare una nuova Intifada, non più di terrorismo suicida, ma con armi a lunga gittata.

Sostenitore di un accordo di pace sancito a livello internazionale, Ben-Ami, che vive fra la Spagna – dove è stato ambasciatore, e Israele – dove insegna all’Università di Tel Aviv, è vicepresidente del Toledo Peace Center, che organizza conferenze internazionali per divulgare i suoi obiettivi di pace: un ritiro di Israele nei confini del ’67, con un’Amministrazione internazionale che finanzi e gestisca temporaneamente i territori sgomberati.
Ben-Ami è arrivato a Milano per presentare l’edizione italiana del suo ultimo saggio, Palestina, a cui ha appositamente aggiunto un aggiornamento al 2006, completando così, fino al momento attuale, un percorso storico analizzato con rigore, chiarezza ed equanimità a partire dalla nascita del movimento sionista, nel 1896, quando il giornalista Theodor Herzl pubblicò Lo stato ebraico.

Fin dall’inizio il problema della popolazione palestinese rimase, come fu ammesso a posteriori, “la questione nascosta”: perché?
Il problema fu sottaciuto perché si pensava che l’integrazione fra le due popolazioni sarebbe stata facile. In fondo i sionisti portavano benessere economico in una regione arretrata. Inoltre mancava un senso di identità nazionale palestinese, che si è sviluppata in seguito, in conseguenza del trionfalismo sionista. La Palestina era definita: “Una terra senza popolo per un popolo senza terra”.

Oggi nessuno più propone l’assimilazione tra i due popoli, prevale la soluzione bi-nazionale. Ma con quali conseguenze per Israele, che ha perso la battaglia demografica?
Bisogna accontentarsi di uno Stato più piccolo, ma prevalentemente ebraico. È una soluzione più coerente con il vero sionismo che non è imperialista, ma fondato su una coesione culturale, come potrei dire, di nicchia. Questa soluzione è proposta anche dall’estremista xenofobo Liebermann, che per evitare trasferimenti di popolazione vorrebbe ridisegnare i confini cedendo terre abitate in prevalenza da arabi israeliani in cambio di fasce abitate da coloni ebrei. Secondo me la base più realistica per l’accordo è il ritorno di Israele ai confini del ’67, ma la natura del conflitto non è incentrata sui territori, o almeno, quella fase è conclusa. La natura del conflitto è soprattutto etica, riguarda questioni come le radici storiche e religiose, la memoria. Le questioni territoriali possono essere facilmente risolte attraverso i compromessi, come è successo con l’Egitto, ma sull’etica i compromessi sono più ardui, eppure bisognerà arrivarci.

Qual è la piattaforma più credibile da cui partire per arrivare all’accordo?
Bisogna conciliare due piattaforme, quella pan-araba del 2002 con i parametri di Clinton. I Territori sgomberati andrebbero sottoposti a un’Amministrazione internazionale che finanzi e supporti il rientro dei profughi, la normalizzazione istituzionale e il decollo economico del nuovo stato. L’apporto internazionale, sia dal punto di vista finanziario che organizzativo, è fondamentale, da soli abbiamo già dimostrato di non potercela fare. Il ruolo principale dovrebbe essere degli Stati Uniti, anche perché gli israeliani diffidano dell’Europa, ritenendola troppo filo-araba

Quindi non vedono di buon occhio l’ingresso della Turchia nella U.E.?
Personalmente penso sia giusto aprire le porte alla Turchia, per non sospingerla, per reazione, all’integralismo. Però mi domando se conviene alla Turchia essere una potenza minore in Europa, quando potrebbe aspirare alla leadership di un mondo arabo democraticizzato.

L’importante compito di supporto degli USA, di cui parla, sarà affidato al prossimo presidente, quale candidato ritiene più adatto?
Chiunque farà meglio di Bush, perché anche un candidato repubblicano cercherà di non ripetere i suoi errori. Con Bush, la questione palestinese si è dissolta in una guerra globale al terrorismo, un’iniziativa per molti versi fallimentare. Se Bush si aspettava di aiutare la democrazia a mettere radici in Medio Oriente, con l’effetto di far emergere una soluzione anche al conflitto arabo-israeliano, si è sbagliato di grosso: non ha capito che ogni democrazia araba è destinata a essere una democrazia islamica. Per questo Mubarak ha sospeso le elezioni in Egitto, perché sa che le vincerebbero i Fratelli Musulmani, e ha bisogno di un po’ di tempo per tentare la grande sfida di oggi, che è la politicizzazione dell’islamismo. È necessario distaccare religione e politica, perché la politica è fatta necessariamente di negoziazioni e compromessi, che la religione non ammette. E come danno collaterale della guerra all’Iraq, Bush ha ridato vigore all’Iran, stato islamico ma non arabo, anzi il peggior nemico degli arabi che però, in nome dell’odio comune contro Israele, cerca di affermare la propria leadership in Medio Oriente.

Quali sono attualmente le prospettive di accordo?
Scarse, se pensiamo che Condoleeza Rice nel suo ultimo incontro col governo israeliano ha ricevuto da quattro ministri quattro piani di pace diversi. Comunque, il momento non è propizio: io stesso, anche se si accettassero le mie condizioni, adesso direi di no, perché i palestinesi non offrono un interlocutore accettabile. L’attuale capo del governo israeliano, Olmert, ha perso una grande occasione non accettando di dialogare con Hamas, che dopo la vittoria elettorale determinata non dai furori terroristici dei palestinesi ma dalla loro ribellione all’incompetenza e alla corruzione del governo di Al Fatah, aveva incominciato un processo di politicizzazione, senza voler imporre un regime di integralismo islamico. Non dando credito alla capacità di Hamas di svilupparsi in movimento politico, lo si è risospinto verso il terrorismo, con la conseguenza di favorire una conflittualità interna che non giova a nessuno. I vicini deboli sono letali, come dimostra il caso del Libano, perché non consentono l’instaurazione di regole chiare e stabili. È meglio per Israele avere vicini forti.

Quale dovrebbe essere il ruolo di Israele in questo conflitto intra-islamico?
Israele ha tutto l’interesse a rafforzare il concetto di “mondo arabo” contrapposto a “mondo islamico”, appoggiando la Lega Araba che a sua volta favorirà l’integrazione di Hamas in un sistema diplomatico per la pace.

I libri per approfondire la conoscenza della Palestina

L'ultimo azzardo di re Netanyahu. La democrazia in in pericolo

Di Enrico CatassiUmberto De GiovannangeliAlfredo De Girolamo | Edizioni ETS, 2023

Mossad. Le più grandi missioni del servizio segreto israeliano

Di Michael Bar-ZoharNissim Mishal | Feltrinelli, 2014

Israele. Storia dello Stato. Nuova ediz.

Di Claudio Vercelli | Giuntina, 2023

Gerusalemme senza Dio. Ritratto di una città crudele

Di Paola Caridi | Feltrinelli, 2022

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