La redazione segnala

A Mahsa Amini viene assegnato il Premio Sakharov 2023

flickr.com - © Loco Steve

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In onore dell'assegnazione del Premio Sakharov 2023, andato a Mahsa Amini, scomparsa per mano della polizia morale del suo paese, per aver indossato male l’hijab, riproponiamo il nostro articolo in sua memoria, tenendo sempre a mente i valori di libertà che il Parlamento Europeo riconosce con questo premio, conferito anche al Movimento delle donne iraniane per la libertà.

C’era una ciocca di capelli fuori posto, così si dice. Mahsa Amini era con la sua famiglia a Teheran, e suo fratello, che ha ben in mente quel giorno, ricorda solo quello: che c’era una ciocca di capelli fuori posto, e tanto è bastato alla polizia. Chissà quanti di noi, a ventidue anni, hanno avuto una ciocca di capelli fuori posto, e l’hanno avuta senza conseguenze – ci sono conseguenze, per queste cose? Sì, ci sono se si vive in uno stato che si definisce teocratico e si comporta come un regime repressivo, autoritario e arbitrario, ci sono se quella ciocca è fuori posto rispetto a una legge sacra, la shari’a, e spunta da un hijab. Da lì il passo è breve all’accusa.

Il 13 settembre 2022 Mahsa Amini è arrestata a Teheran perché non indossava l’hijab in maniera conforme. Del resto, è dal ’79 che l’hijab è obbligatorio, per le donne, è una legge che ha introdotto Ruḥollāh Khomeynī, il leader supremo dopo la rivoluzione in Iran, che si è inasprita col passare degli anni, anziché allentarsi – nell’83 le donne che non portano l’hijab in pubblico sono condannate a 74 frustate, e se oggi non persistono le frustate, la rieducazione in carcere è ancora più violenta. Il 13 settembre Mahsa è arrestata, tre giorni dopo, il 16, muore, e si dirà che è stato per un infarto, o per una malattia cerebrale a seguito di quell’operazione subita a otto anni, o perché è caduta e ha battuto la testa, una versione vale l’altra, se anche la polizia si contraddice non importa, a nessuno importa.

Quella volta però ha importato. Sulla pagina Instagram dell’ospedale dov’è ricoverata – in coma – Mahsa compare un post che dice che la ragazza è arrivata lì in stato di morte cerebrale a seguito di violente percosse. Ma il post è stato rimosso in poche ore. Ma anche quando il fratello la vede capisce che qualcosa non va, perché ha dei lividi sulla faccia, sotto gli occhi, sulla testa. La polizia morale l’aveva arrestata per rieducarla, avevano detto che sarebbe uscita entro poche ore, giusto il tempo di un’amichevole strigliata, del resto era una ciocca di capelli. E invece Mahsa, la ventiduenne Mahsa, poco più che ragazzina, esce dalla caserma già morta, arriva in ospedale in stato comatoso con il sangue sulla faccia e che usciva dalle orecchie, un’immagine raccapricciante e dolorosa.

Un’immagine che nessuno ha visto, tranne i medici e la polizia, eppure esplode. Esplode in proteste, solidarietà, bellezza e libertà. Esplode e arriva sino a noi, un anno dopo, quando gli occhi del mondo stanno guardando altrove per riportare lì l’attenzione: le donne e gli uomini liberi dell’Iran non hanno mai smesso di lottare in nome di Mahsa. Suo malgrado martire, oggi le proteste assumono la forma di una disobbedienza civile che vuole minare il sistema nelle sue parti più piccole, più quotidiane. In un anno ci sono state centinaia di manifestanti uccisi – molti minorenni –, migliaia di arresti e sette esecuzioni per impiccagione. E mentre lo stato punta a intimidire, a un anno dalla morte di Mahsa la gente dell’Iran libero ha smesso di avere paura.

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