Fatti orribili funestano la città di Palermo nell’ottobre del 1862. Tredici persone, come in una lugubre modalità terroristica di attentato, vengono gravemente ferite di coltello. Gli assaliti non riescono a spiegarsi le ragioni delle incursioni: nessuno sembra avere conti in sospeso, né ha idea dell’identità dei pugnalatori.
Piovono coltellate nella notte tra l’1 e il 2 ottobre, e il Procuratore Giacosa intuisce subito che non si tratta di conti privati, ma di una deliberata strategia di destabilizzazione del territorio siciliano. Ma perché mai? Chi avrebbe interesse a ordire una simile trama con un esercito così sparuto? Quale causa può unire gli uomini in azioni così esecrabili?
Il 1° ottobre 1862 un "fatto criminale di orrida novità" funesta Palermo: alla stessa ora, in luoghi quasi equidistanti, vengono pugnalate tredici persone. A investigare su quella che subito appare come una sinistra macchinazione è il procuratore Guido Giacosa, di recente arrivato dal Piemonte.
L’ordine. La sicurezza. La sindrome che ci rende nostalgici di un passato mitizzato, come rifiuto a un presente intollerabile e a un futuro che invochiamo come eterno ritorno. La scelta di Leonardo Sciascia di pubblicare un saggio storico come I pugnalatori non dovrebbe destare sorpresa: è il gusto per la narrazione di eventi reali, il fascino della ricostruzione filologica, un certo senso di parsimonia di giudizio, fattori che aveva già impiegato nell’approcciarsi alla misteriosa scomparsa di Majorana.
Fra la partenza e l'arrivo in un viaggio per mare da Palermo a Napoli, il 26 marzo 1938, si perdono le tracce del trentunenne fisico siciliano Ettore Majorana. Suicidio, come gli inquirenti dell'epoca vogliono lasciar credere, o volontaria fuga dal mondo? Su questo interrogativo Sciascia ne ricostruisce la storia.
Il metodo di Sciascia è inconfondibile: penetrare nella personalità, ma farlo affidandosi devotamente ai frammenti, alle carte, alle testimonianze orali, e da lì riavvolgere il filo consentendosi di aguzzare l’ingegno (letterario e umano) e formulare ipotesi di risoluzione.
Ed è proprio in seguito alla pubblicazione su «La Stampa» della Scomparsa che Leonardo Sciascia viene sollecitato a usare la sua penna per un’altra storia, di un altro uomo per il quale si trova a provare una fascinazione inspiegabile: Guido Giacosa, bisnonno di Nina Ruffini, autrice di una miscellanea di studi su figure e fatti piemontesi: Un magistrato piemontese in Sicilia: 1862-1863.
La vicenda lo intriga perché è irrisolta e oscura, ammantata di inesattezze che circondano la figura di Giacosa come era stato per Majorana, e l’autore – leggendo la lettera della Ruffini - si era reso conto di essere caduto nella stessa trappola cognitiva: credere di avere un’opinione che, in fondo, si è solo mutuata da pettegolezzi e dicerie.
Ma c’è un’altra ragione, più o meno consapevole, che spinge il narratore e saggista ad avventurarsi tra gli archivi: c’è qualcosa di sorprendentemente, e spaventosamente simile, tra l’Italia post-unitaria e quella del 1976, anno di pubblicazione de I pugnalatori.
La Sicilia pre-unitaria è costellata di arresti e fucilazioni e disordini pubblici: dunque perché mai per Sciascia questa vicenda risuona con i cosiddetti “anni di piombo” italiani? Ebbene, esattamente per il piombo. La cospirazione dei pugnalatori fu un fatto di sangue truce con i suoi pentiti e le sue durissime pene, e dentro di essa si sarebbe potuto, con le cautele storiche necessarie, rintracciare una certa devianza, una malattia delle istituzioni del paese ben prima della vita repubblicana.
Un secolo prima era stato subito chiaro, a Giacosa e alla magistratura, che gli esecutori materiali erano stati manovrati dal partito borbonico e da un manipolo di clericali, ostili ai funzionari statali sbarcati in Sicilia. I siciliani non furono solo compatti nel condannare il sanguinoso atto, ma anche nel rimpiangere la ferrea polizia borbonica degli anni Sessanta del diciannovesimo secolo: era un partito d’ordine, bisognava far tornare gli uomini d’ordine.
La sfumatura era invece più sottile, dice lo storico Paolo Pezzino: era un’abitudine dell’aristocrazia siciliana di ordire contro il potere costituito, qualsiasi esso fosse, per il solo fatto che detenesse appunto il potere, incoraggiando gli aristocratici (e la mafia) a proporsi come detentori alternativi del monopolio della violenza.
Nel mutamento di regime, nel “chiaroscuro” gramsciano (cioè le fasi di interregno in cui si è divisi sulla configurazione nuova da darsi come comunità e società), conferma Sciascia:
Ci sono i vecchi che vogliono farsi meriti nuovi; i nuovi che vogliono soppiantare i vecchi; senza dire dei dilettanti, cui si può anche riconoscere una certa fede nell’ordine nuovo e degli interessati: che son quelli che vogliono deviare l’ordine nuovo nell’alveo del vecchio e cioè a far colpire dal nuovo quegli stessi che erano bersaglio del vecchio
Allora si comprende che il pamphlet sciasciano è in realtà un esercizio civico di ricognizione storico-politica che l’autore presta al paese tutto: dal 1964 è in atto la “strategia della tensione”, che vede gli opposti estremismi capitalizzare i diversi tipi di emarginazione e frustrazione psicologica degli italiani alle prese con la matura e iniqua modernità capitalistica.
Dal Piano Solo ai golpe Borghese e Sindona, passando per drammatiche stragi, si intrecciano due strategie: quella golpista dei settori reazionari e filofascisti delle forze armate, e quella stragista degli “opposti estremismi” (cioè i partiti e i gruppi armati anti-sistema da destra e da sinistra), con un obiettivo convergente, cioè creare il bisogno d’ordine, quindi uno scivolamento pre-politico – cioè psicologico – verso il centro e il moderatismo.
Accadeva nel 1862 con il “partito esagerato”, immischiato in affari complottistici con la camorra rionale e la mafia rurale, e accadeva un secolo dopo, secondo antichi e stabili modelli italiani. Il borbonismo che si faceva fascismo, cioè abitudine all’inquinamento della legalità democratica con l’azione violenta.
Perché? Bisogna penetrare il cuore umano, dice Giacosa, per comprendere le opere inesplicabili degli uomini. Chiedersi, come si fa con grande profondità interpretativa in The Crown, cosa provasse Lord Mountbatten ad assistere impotente al tramonto delle cose note, a sentirsi alla deriva di un porto un tempo conosciuto.
Non è solo avidità: è vocazione al controllo. In fondo, è paura. Ed è contro la paura come sentimento guida delle scelte politiche che dobbiamo insorgere.
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