Immagine tratta dal libro "Ogni cosa a suo tempo. Storia della mia vita" di Mihail S. Gorbacëv Marsilio, 2021
Ha scritto ieri Ugo Tramballi sul “Sole 24 ore” che il profilo della biografia pubblica di Michail Gorbačëv*, mancato ieri all’età di 91 anni, sembra paradossalmente assomigliare a quello di un personaggio di Dostoevskij: prima ispirato dall'idea del bene, poi tradito dalla natura umana, infine rassegnato all'espiazione.
È una buona suggestione. Forse dobbiamo avere uno sguardo più lungo e anche provare a fare dei conti meno personali.
Quello di Michail Gorbačëv è stato contemporaneamente un tempo lungo e un tempo breve.
Tempo lungo è quello della crisi strutturale dell’Urss, che tra anni ’60 e anni ’70 prova con Breznev a ritrovare un equilibrio, dopo la stagione di Khruscev (1956-1964), e poi è travolta dalla crisi interna di un sistema politico che non riesce a smettere di essere dispotismo mentre continua a dichiararsi “dispensatore di eguaglianza”. Michail Gorbačëv giunge alla carica di segretario generale del Partito, e dunque di dominus dell’Urss, dopo due tentativi sostanzialmente andati a vuoto che provano a continuare, con leggere modifiche tra 1983 e 1984, l’impero di Breznev.
Il tempo breve è invece quello che si inaugura tra 1986 e 1991 e che riguarda il processo che lentamente pensa di riformare l’Urss, o di avviarla a una nova stagione e poi nella crisi della seconda metà degli anni ’80, quando deve lentamente prendere atto che quel sistema non è riformabile.
Dunque al bivio si tratta di scegliere: rimettere in piedi una società politica fatta di attori in conflitto – scomparsa letteralmente dall’Urss già nel 1921 – o riprendere, anche in forza di uno slancio populista, la possibilità di risorgere, sognando sempre l’impero, affidandosi a un leader carismatico.
Vince la seconda ipotesi: prima con Boris Eltsin e poi con Vladimir Putin.
Lì si arresta il percorso contraddittorio, ma anche generoso, di Michail Gorbačëv.
Tentativo che non riesce ad arrivare in meta per le opposizioni interne; per le consuetudini di un sistema culturale che non ha mai pensato di uscire dal sistema di tutela che l’autocrate deve garantire; per la diffidenza di quanti intorno aspettano sul fiume che passi il cadavere del riformatore, convinti che così ci guadagniamo tutti.
Quel processo, il cui esito ci pare oggi fallito, sa che il futuro, se anche ha origine dalla volontà di evitare che oggi non sia la conferma di ieri, ma sia un segno una rottura e per questo un nuovo inizio, nasce da un patto in cui sul futuro si investe perché in esso siamo tutti coinvolti. E nasce perché non ci mettiamo alla finestra a valutare se chi sta provando a cambiare ci crede davvero, fa finta o non sa che fare.
Ogni ipotesi di futuro collettivo nasce non se ci si lamenta, ma se si ritiene che valga la pena.
Il problema è che investire sul futuro non è mai una questione di affermazione di diritti da richiedere, bensì consiste nel riconoscimento di un obbligo che riguarda tutti gli attori (politici, sociali, culturali): i singoli, le realtà associate dal basso, gli Stati.
È la stessa “porta stretta” che ci troviamo a decidere se attraversare o meno se messi di fronte alle sfide della sostenibilità. Non possiamo raccontarci solo l’utopia o, a rovescio, il disastro, “fare spallucce” o scaricare la responsabilità sul vicino (di casa, di confine...).
Dobbiamo scegliere di passare per la “porta stretta”. Nessuno è già dall’altra parte.
Siamo tutti davanti a quella porta. E il futuro è possibile costruirlo solo provando ad affrontarlo, responsabilmente, insieme.
*La grafia utilizzata nell’articolo si avvale di simboli fonetici traslitterati dal cirillico. Oggi, in Italia, si trova anche, e anzi più spesso, la grafia Gorbaciov
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