Chi ha vinto Venezia: tra dubbi e grandi successi

L’edizione numero 79 della Mostra di Venezia si è conclusa con un verdetto a sorpresa: Leone d’oro a All the Beauty and the Bloodshed di Laura Poitras, documentario che racconta la figura di Nan Goldin, celebre fotografa della scena underground newyorchese degli anni ’80 e ’90 e oggi militante impegnata in una dura lotta contro le compagnie farmaceutiche. 

Un premio dichiaratamente politico (e non propriamente meritato), che ribadisce il vizio delle giurie internazionali di premiare opere il cui valore trascende il semplice dato cinematografico (All the Beauty and the Bloodshed è un buon film, attraversato però da tre anime, una artistica, una intimista e una militante, mal amalgamate) e abbraccia l’attualità delle questioni politiche e culturali più urgenti, come in questo l’emergenza sanitaria negli Stati Uniti per le morti per overdose da oppiacei.  

Luca Guadagnino

Il resto dei premi assegnati dalla presidente di giuria Julianne Moore racconta di una Mostra con tanti film in concorso (ventitré) e pochi picchi significativi, a parte la nuova riflessione sul rapporto fra realtà e rappresentazione, libertà e prigionia, del regista iraniano Jafar Panahi, arrestato nuovamente lo scorso luglio e impossibilitato a presentare il suo Gli orsi non esistono (solamente Premio speciale della Giuria). A dominare è stato ancora una volta il cinema americano, che ha in Venezia non solo il luogo da cui prende il via la corsa agli Oscar, ma anche un avamposto che nega in maniera un po’ illusoria l’evidenza di una crisi di forme e di stili altrove piuttosto evidente.

Julianne Moore

Fa un po’ effetto, insomma, vedere premiati in una Mostra d’arte cinematografica artisti e artiste fra i migliori in circolazione ma non esattamente bisognosi di riconoscimenti. Perché, insomma, dopo quella per Io non sono qui, una seconda Coppa Volpi alla pur straordinaria Cate Blanchett di Tár, dove è una direttrice d’orchestra che cada sotto i colpi del proprio desiderio di potere e piacere? E perché l’Osella alla miglior sceneggiatura a Martin McDonagh, regista da sempre autore di script di ferro, per il pur notevole The Banshees of Inisherin, premiato anche con la Coppa Volpi al suo protagonista Colin Farrell? Tutti premi meritati, sia chiaro, che però riconoscono banalmente la professionalità del cinema anglosassone e aderiscono alla debolezza di una selezione a cui è mancato forse il coraggio di puntare su un cinema d’autore capace di riflettere sulla contemporaneità al di fuori di mode e modelli consolidati.  

Martin McDonagh

Uniche eccezioni, Luca Guadagnino, che con la storia d’amore horror Bones and All ha vinto la migliore regia (e il suo stile elegante e maturo è davvero una delle cose più belle di questa Venezia), e la francese Alice Diop, che ha vinto il Gran Premio alla Giuria con il geometrico ed emozionante Saint Omer, resoconto del processo a una donna africana infanticida, e pure il premio Luigi De Laurentiis per l’opera prima nonostante si tratti per lei del quarto film (a meno di non voler ribadire una differenza anacronistica fra fiction e documentario…). 

Tra gli italiani rimasti a bocca asciutta nonostante la fitta presenza in concorso (e nonostante l’apprezzamento di molti per Monica di Andrea Pallaoro), due premi a un film italo-austriaco nella sezione Orizzonti: Vera dei documentaristi Tizza Covi e Rainer Frimmel, premiato per la regia e per la prova della sua protagonista Vera Gemma, figlia dell’attore Giuliano. La sezione è stata invece vinta dall’iraniano World War III di Houman Seyedi, scioccante racconto della follia di un uomo chiamato a interpretare Hitler su un set cinematografico.

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