Ho parlato spesso di paesaggi e di luoghi, nelle mie incursioni su Maremosso.
Una delle idee che mi stanno più a cuore è che non esistano paesaggi cristallizzati, neanche nell’immaginazione. Il paesaggio non è una cosa immobile, non è uno sfondo. È qualcosa che agisce con noi, e quindi più che a un quadro o a una fotografia somiglia a un racconto: il racconto del nostro abitare.
Ora, se il paesaggio si muove e agisce, una delle sue caratteristiche è anche l’imprevedibilità.
Il paesaggio, specialmente quello post-industriale, con i suoi siti di abbandono e smobilitazione, può sfuggirci di mano e mettersi a camminare per conto suo. Quando lo fa non diventa solo un “paesaggio fragile” che si sgretola sotto di noi (ne scrive Antonella Tarpino), ma può anche trasformarsi in una moltitudine di luoghi di sorprendente resilienza.
Penso agli spazi interstiziali al confine tra l’abitato e l’incolto di cui ci parla Gilles Clément, teorico del Terzo Paesaggio; o ai paesaggi “mostruosi” raccolti da Annalisa Metta in un bellissimo libro dedicato proprio al modo in cui a volte i luoghi seguono dinamiche proprie, imponendosi con le loro geometrie di contaminazione e metamorfosi.
In casi come questi, l’assottigliarsi delle attività umane può perfino consentire la creazione di rifugi per la biodiversità.
Sono una sfida all’antropocentrismo, questi paesaggi imprevedibili.
Paesaggi così sono intorno a noi e la letteratura ce ne parla spesso.
Gianni Celati li ha attraversati con compagni di viaggio come Luigi Ghirri e John Berger. I suoi vagabondaggi lungo una Pianura Padana sospesa tra solitudine urbana, terreni vaghi e centrali nucleari sono affidati a un libro, Verso la foce, e ai tre documentari di Cinema all’aperto (Strada Provinciale delle Anime, Case Sparse-Visioni di case che crollano, e Il mondo di Luigi Ghirri).
Questo libro e questi film sono un manifesto e un invito: un manifesto dell’indipendenza del paesaggio dall’io, e un invito a prendere sul serio quest’indipendenza, a uscire dal “self” (direbbe Calvino) e abbandonarsi al “fuori”.
Infatti, scrive Celati:
Anche l’intimità che portiamo con noi fa parte del paesaggio, il suo tono è dato dallo spazio che si apre là fuori ad ogni occhiata; ed anche i pensieri sono fenomeni esterni in cui ci si imbatte, come un taglio di luce su un muro, o l’ombra delle nuvole
Ma se il “self” può perdersi nel fuori, a volte può anche capitare che sia il fuori a spingersi dentro, e a rimanerci.
In altre parole, il paesaggio non è solo un luogo abitato, ma anche un’idea che ci abita. È insieme una forma di autocoscienza ambientale e il nostro inconscio. Quando ciò accade, emergono storie e memorie sospese tra l’individuale e il collettivo, l’esperienza e l’archetipo, e per questo la letteratura e l’arte sono i canali privilegiati per esprimere queste dinamiche (ce lo spiega Vittorio Lingiardi in un libro importante, Mindscapes).
La letteratura e l’arte hanno la funzione di consegnare il paesaggio vivo nell’immaginazione di un singolo all’immaginario collettivo. Avviene per esempio in Proust, che proprio attraverso la memoria emotiva dei luoghi si riappropria della sua archeologia personale, che diviene di colpo anche quella di chi legge.
Però può anche accadere il contrario, ossia che la nostra mente diventi a sua volta ostaggio dei luoghi.
È quanto ci racconta Oliver Sacks in un racconto contenuto in Un antropologo su Marte. È la storia di Franco Magnani, un pittore dilettante che non riesce a dipingere altro che non sia Pontito, il borgo toscano che ha lasciato da giovane per trasferirsi in California. Pontito per Magnani è un’ossessione. Lo segue nei sogni, nei pensieri, nelle conversazioni.
Vi ritorna dopo una vita d’assenza, e com’è prevedibile l’impatto è durissimo. Nella sua mente, infatti, il paese è cristallizzato, immobile in una fotografia di serena perfezione: ed è, a tutti gli effetti, un fantasma.
Quello che Magnani non comprende, nella sua fissazione, è che il paesaggio è corpo vivente in un percorso evolutivo, e non è mai un museo di immagini astratte dal tempo. I paesaggi invecchiano, cambiano, muoiono: ma nel frattempo sono vivi, proprio come noi. Preservarli non significa catturarli in un momento o farne un monumento, ma far sì che continuino a essere luoghi in cui abitare – anche lasciando che diventino dimora per esistenze diverse dalla nostra.
In un’epoca in cui tutto sembra scomparire attorno a noi, ci sono almeno due modi per tutelare un paesaggio.
Il primo è averne cura, conservandone le testimonianze e il tessuto umano, rendendolo un bene comune fruibile da tutti nel tempo.
Il secondo è assecondare la libertà delle infinite metamorfosi della vita che un paesaggio può essere, dopo l’umano.
Di
| Einaudi, 2016Di
| Quodlibet, 2016Di
| DeriveApprodi, 2022Di
| Feltrinelli, 2018Di
| Raffaello Cortina Editore, 2017Di
| Adelphi, 1998Di
| Il Saggiatore, 2019Ti potrebbero interessare
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