Il mio primo Calvino è un racconto letto alle elementari. Era la storia di due ragazzini che camminano lungo le rotaie del treno in un giorno d’estate. Intrepidi e avventurosi, scovano il modo di infilarsi in una siepe di bosso, e d’improvviso si ritrovano catapultati in un giardino in cui, soli, possono giocare, nuotare, fare merenda, perdersi a esplorare. Ed esplorando arrivano nei pressi di una villa.
Qui, attraverso le persiane, vedono un ragazzo dall’aria malinconica che legge un libro, circondato da quadri di farfalle. Intimiditi e angosciati, Giovannino e Serenella restano nascosti dietro alla finestra per pochi istanti infiniti.
Poi, furtivi come sono arrivati, se ne vanno e tornano a giocare fuori da quell’incanto inquietante, correndo lungo i binari fino alla riva del mare.
Il titolo del racconto è Il giardino incantato. Calvino lo fa uscire nella sua prima raccolta, Ultimo viene il corvo. È il 1947, e lui vive tra Sanremo e Torino, dove ha appena trovato lavoro all’Einaudi. Se dicessi che me lo ricordavo nei dettagli direi senz’altro una bugia. Per anni infatti l’ho cercato senza successo nei libri di Gianni Rodari, e solo dopo ho scoperto che invece era di Calvino.
Vivissimi nella memoria mi erano rimasti però i nomi dei bambini (troppo facile: uno era il mio), e questa sensazione di un fuori e un dentro che si mescolano, di un paesaggio che entra nei giochi e negli occhi, di piante che graffiano la pelle, di mare salato, di luce che cambia con il sole, e della meraviglia un po’ perturbante che si cela in certi giardini.
«Col titolo Ultimo viene il corvo le edizioni Einaudi pubblicarono nel 1949 la mia prima raccolta di racconti brevi; essa era composta di trenta pezzi scritti tra il 1945 e il 1948 e in massima parte già usciti su giornali.»
In quello stesso libro, c’è un altro racconto, Un pomeriggio, Adamo. Anche qui, due ragazzi; anche qui un giardino e una casa, e anche qui un gioco. I ragazzi sono un giovanissimo giardiniere, Libereso, e Maria-nunziata, quattordicenne domestica calabrese.
Il giardino non ha nome, ma è quello di Villa Meridiana a Sanremo, dimora dei Calvino: ed è un giardino botanico in cui ogni pianta invece un nome ce l’ha, e anche una targhetta. Il gioco dei ragazzi è il dono di parole viventi: sono rane, rospi, scarabei, pesci rossi, formiche argentine, e perfino un piccolo riccio. Questo Adamo adolescente che regala parole e nature volanti e saltellanti a una fanciulla piena di stupore è Libereso Guglielmi, borsista a Villa Meridiana, anarchico quindicenne con un nome che in esperanto significa “libertà”. Sarà famoso in tutta Europa proprio per il suo talento di giardiniere, e rivivrà sempre quegli anni, che infatti racconta in un libro pieno di curiosi ricordi, Libereso, il giardiniere di Calvino.
Italo scrive queste storie che non ha ancora ventiquattro anni, ma è già lui. È il figlio di due studiosi di piante che fugge dalla casa di famiglia e dal suo rigore linneiano per avventurarsi nel mondo disordinato e in piena evoluzione che trova “fuori”. E fuori è un’Italia che sta uscendo dalla guerra, in cui le città riprendono a vivere e le industrie a marciare. È un mondo fatto di città e di aspiranti cittadini, di libri e di lavoratori, di animali, di giornali, di bombe e di alberi, di smog e di industrie.
Lui intanto ha scritto il suo primo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno (1947): un’epopea espressionistica su infanzia e Resistenza, in cui la storia di una pistola si fonde con il segreto della vita brulicante e umida del terreno dei boschi. Qui la figura di un ragazzino, Pin, è tutt’uno con la severità di un paesaggio urbano, ancora avvolto da luci e da odori medioevali (la Pigna di Sanremo non nominata, e però riconoscibilissima).
Ma il Calvino di quei racconti giovanili è già anche altro: perché lascia intravedere, come “la noce nel guscio” (sono parole sue), molto di quello che verrà.
E il Calvino che verrà scriverà storie di paesaggi lussureggianti mutilati dalla “furia della scure” (Il barone rampante) o sfigurati dalla valanga di cemento degli anni Cinquanta (La speculazione edilizia); storie di inquinamento industriale in città dominate dalla polvere (La nuvola di smog, e Marcovaldo); storie di chi vive in città e sogna di essere altrove, e sogna una natura che forse non è mai esistita, mentre esistono la nebbia, la fame, la tosse e le periferie (sempre Marcovaldo); storie di un universo che gioca con se stesso, evolvendosi all’infinito (Le cosmicomiche); storie di città invisibili in un impero in disfacimento che racchiudono il senso, la fine e la salvezza della forma-città (Le città invisibili).
E poi, in Palomar, la sua ultima opera narrativa, Calvino si farà occhio, un po’ burbero, di un mondo che contempla sé stesso e si ritrova smarrito di fronte a merli che fischiano, a storni che volano nel cielo di Roma, alla pancia di un geco visto da dietro un vetro, agli animali tristi degli zoo europei, alla carcassa “fraterna” di un bue squartato in una boucherie di Parigi.
E fuori dalla finzione, ci saranno saggi, conferenze, articoli scritti per quotidiani e riviste, raccolti nel bellissimo Meridiano di Saggi (1945-1985). Anche qui, tra i temi ricorrenti ci saranno l’azione umana sulla natura, i disastri delle civiltà e degli inquinamenti, la responsabilità della tecnologia, le crisi che oggi chiamiamo ecologiche.
Quanto mondo c’è nelle pagine di Calvino? Tantissimo, sin dall’inizio. E non è solo un mondo immaginario, ma è anche un mondo che attraverso di sé ci fa vedere il nostro mondo, con tutte le dinamiche che oggi riconosciamo nei nostri paesaggi, nelle nostre città, nei rapporti che abbiamo con gli altri animali, o con gli animali che noi stessi siamo.
Questo mondo, che noi chiamiamo “ambiente”, in Calvino non è un tema tra gli altri: è il tema. Leggere le sue opere oggi, a cent’anni dalla nascita, non ci dà solo modo di seguire in lui questo filo rosso – o verde, o grigio o di qualsiasi colore sia – ma anche di raccordarlo con tutti i fili del nostro presente.
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