È morta a 91 anni nella sua casa di Roma, Rosetta Loy, dopo una vita dedicata alla scrittura e all’Italia. Sì, perché del suo Paese, in tutti i suoi libri, Rosetta ha avuto qualcosa da dire. È stata testimone di uno dei periodi più oscuri e brutali della nostra storia, quello del fascismo delle leggi razziali e dell’entrata in guerra, ma anche di fatti più recenti – nel suo Cuori infranti racconta dell’omicidio di Novi Ligure e della strage di Erba, per esempio. Uno sguardo sempre discreto, tipico di chi non è protagonista della storia, ma spettatore, pur coinvolto: uno sguardo, si potrebbe dire, semplicemente umano. Con Le strade di polvere vinse il Premio Campiello, con La parola ebreo il Fregene e il Rapallo Carige. Per questo libro, la redazione di Wuz aveva intervistato Rosetta il 6 giugno del 1997, e qui riportiamo le sue parole di scrittrice, testimone e intellettuale del nostro tempo.
Al di là della commemorazione di Primo Levi, è particolarmente vivo in quest’ultimo periodo il tema della memoria e del ricordo, specie dell’olocausto. Come mai, secondo lei, questo avviene, dopo un precedente periodo di “oblio”?
È una domanda che mi sono fatta anch’io. Anch’io infatti mi sono chiesta come mai ho scritto questo libro adesso mentre avrei potuto scriverlo molto tempo fa... Nel mio caso è stata in particolare la vittoria di Berlusconi a crearmi uno shock terribile: è stato un modo per capire ciò che avevano provato i miei genitori quando è arrivata la vittoria del fascismo.
Quando ci sono state le elezioni ho pensato «No, Berlusconi non può vincere, chi può votare Berlusconi e Fini?» Ne ero veramente convinta. La sera in cui c’è stata la proclamazione della vittoria ero sola. È stato un momento terribile: ho sentito come se si rompesse qualcosa in cui avevo profondamente creduto... Avevo sempre pensato che, tra alti e bassi, terrorismo, etc., ci fosse un processo che si andava allargando. Invece è come avessi visto improvvisamente la marea che cominciava a risalire dall’altra parte.
Questa consapevolezza è stata per me molto importante, il motivo scatenante. E ho capito che in qualche modo se non c’è una vera... be’, vera memoria non può esistere, ma se non c’è una consapevolezza di cosa abbiamo dietro le spalle è inutile cercare di andare avanti. Perché prima di tutto dobbiamo fare i conti con noi stessi, tutti noi dobbiamo farlo, con le cose più nascoste, “messe nelle pieghe”. E solo dopo penso che si possa dire di essere liberi di andare avanti.
L’idea di un fenomeno che sembrava superato e invece...
Devo dire che inizialmente pensavo che la mia reazione fosse dovuta alla mia età. Invece è un fenomeno presente anche nei giovani, Goldhagen è giovane, Affinati, che ha scritto Campo del sangue, è giovane. È proprio il bisogno di capire noi chi siamo, da dove veniamo.
Quindi in questa situazione lei pensa che uno scrittore non possa esimersi dal farsi in qualche modo educatore.
Non voglio essere un educatore. Penso che ognuno debba essere quello che è. Ma in questo caso non ho potuto farne a meno. Iniziando a scrivere questo libro, non sapevo che cosa ne sarebbe venuto fuori, era un esperimento assolutamente nuovo. Io sono abituata a scrivere con la fantasia e qui ho dovuto fare un grosso sforzo per non uscire mai dai binari, perché la tentazione di aggiungere un po’ era forte. Inizialmente ho scritto esclusivamente per me, pensando di non riuscire a scrivere veramente un libro.
È nato, infatti, tutto casualmente. Ho iniziato a documentarmi molto quando ho scritto Cioccolato da Hanselmann. In quel periodo mi hanno chiesto una conferenza a Parigi. Dato che mi ero documentata sulle leggi razziali, mi sono offerta di parlare delle leggi razziali che riguardavano gli intellettuali, tema sul quale ho fatto, in questa prospettiva, un ulteriore lavoro di approfondimento. In Francia la conferenza è andata molto bene, mi hanno chiesto se poi era possibile pubblicarla facendo degli aggiustamenti. La mia conferenza cominciava con un ricordo personale, quello del ragazzo che doveva portare da solo la bicicletta [poi riportato in La parola ebreo, ndr.]. Da lì è come se i ricordi si fossero poi “affollati” insieme, improvvisamente. Così mi sono detta «Io provo, servirà anche a me». Non sapevo che si sarebbe poi sviluppato il libro.
All’inizio l’opera era abbastanza squilibrata. Non riuscivo a mettere insieme le notizie, l’ostacolo fondamentale era quello, e il principale lavoro è stato proprio equilibrare le parti.
Il tema della memoria è anche in Cioccolata da Hanselmann, una ricostruzione che parte dall’infanzia. Quindi lei pensa che sia importante recuperare l’interezza della vita di una persona?
Sì, penso di sì. Recuperarla fin quanto possibile, perché nel mio profondo penso che una vera memoria non può esistere. Perché noi ricordiamo quello che ci ha colpito, ma l’esatta memoria dei fatti, così come sono stati, non esiste. Ognuno vede ciò che vuole vedere. Penso che i bambini siano quelli che vedono meglio, perché non hanno pregiudizi e non hanno giudizi: i bambini registrano e per questo sono più capaci di vedere. L’infanzia è un momento importantissimo della vita. Però anche i bambini probabilmente colgono certe cose e certe altre forse non vogliono coglierle. In tanti casi scatta una difesa.
Si considera erede di quali culture, di quali tradizioni?
Penso che la mia vera, unica cultura sia stata una cultura cattolica. Vengo da una famiglia estremamente cattolica, quindi la mia identità culturale è sicuramente quella cattolica: scuola cattolica fino alla terza liceo, praticante fin quasi a quarant’anni, cercando strade diverse. Quelle “stanze” le conosco molto bene, nel bene e nel male e mi ci so muovere. Dopo, crescendo, ho scoperto tutta l’altra cultura. E devo dire che sono stata molto affascinata da quella che viene definita “cultura laica”.
Quali sono i libri di formazione per eccellenza, quelli che secondo lei tutti dovremmo leggere?
È una domanda molto difficile. Credo molto nella letteratura in quanto approfondimento di idee di cui solo la letteratura stessa fornisce il senso. Posso dire quali sono stati i libri importanti per me. Il mio iter comincia con Proust, e quindi ancora una volta con la memoria, il vissuto, conservato in piccoli brandelli ma intatto. Poi libri molto importanti sono stati Guerra e pace, le opere di Virginia Woolf. Se penso al tema ebraico, devo dire che per me il libro più importante è stato I sommersi e i salvati, l’ultimo di Primo Levi. I primi anche, ma i primi si sono forse inquadrati in un momento diverso. I sommersi e i salvati perché è un ripensamento dell’autore dopo molto tempo e perché in questo libro mi sembra che la “sonda della letteratura” sia arrivata a toccare il punto dolente, la domanda estrema: «perché qualcuno si è salvato e altri no?» Poi, certo, i libri sul Terzo Reich, Shirer e altri libri di storia molto importanti. E tornerei ancora a Guerra e pace, un libro sulla vita straordinario che racconta la vita come se la vivesse dal di dentro, toccandone tutti gli aspetti, l’amore, la morte, la guerra, il dolore, la gioia, la felicità, la giovinezza...
Solo in Dostoevskij ho capito il terrorismo. E ancora dovrei parlare della Morante. Trovo che il libro più bello della Morante sia sicuramente Menzogna e sortilegio, però il libro che mi ha dato un certo senso della storia è stato proprio La storia, con tutto che aveva cose che non mi piacevano, non mi ha “preso”, ma a un certo punto vi ho trovato questa visione di come la storia generale entri nella vita di tutti ed è inutile che diciamo «non mi tocca», «non mi importa», tocca tutti, perché è l’appartenenza alla collettività che fa capire la storia. La collettività mi determina, segna la mia vita e capire questa è una presa di coscienza molto forte, che mi è arrivata attraverso la lettura di questo libro.
A un ragazzo oggi, che non legge tanti classici, cosa consiglierebbe?
È difficilissimo dare un consiglio perché i libri sono degli incontri e degli incontri che avvengono in certi momenti. Vorrei incoraggiare moltissimo la lettura, cosicché sia facile prendere un libro in mano. Se i ragazzi prendono più libri in mano trovano quello che loro si aspettano e forse nessun altro riesce a dire. Se non si ha dimestichezza con i libri gli incontri sono impossibili. Bisogna avere dimestichezza con i libri e non avere paura di affermare che un libro non ci piace e interromperlo. Non esiste il dovere della lettura. È sbagliato mettere la lettura in forma di dovere. La lettura deve sempre nascere dal piacere.
Forse la scuola non è stata utile in questo senso.
No. Nelle scuole dovrebbero esserci bellissime biblioteche dove i ragazzi possano girare e avere la massima possibilità di scelta. Adesso ci sono altri strumenti di conoscenza, come Internet, ma un libro si può tenere in tasca, si può leggere in tram, si legge anche in dieci minuti...
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