Per lo Stato italiano era solo un “bandito”, ma nell’immaginario del dopoguerra fu di tutto: un terrorista a contratto, un Robin Hood, un agente segreto, un eroe della Sicilia, un grande simbolo sexy. Come spesso accade ai banditi, morì giovane; la sua morte fu anche la più torbida messinscena su cui mosse i primi passi la Repubblica italiana.
Stiamo parlando di Salvatore Giuliano, nato il 22 settembre del 1922 a Montelepre, in provincia di Palermo, figlio di contadini emigrati in America all’inizio del secolo, e tornati con abbastanza soldi da potersi comprare un po’ di terra al paese. Per Salvatore, l’anno decisivo della vita fu il 1943, con l’invasione degli americani e il crollo del fascismo, che per il resto dell’Italia sarebbe avvenuto solo due anni dopo.
In Sicilia furono due anni incerti, violenti, di complotti e utopie … e di mercato nero. Il contrabbando del grano era l’attività principale dell’isola e Salvatore, a 21 anni, venne un giorno trovato a trafficare da un posto di blocco dei carabinieri. Il ragazzo sparò al carabiniere che gli voleva sequestrare il carico, e si nascose, protetto dalla famiglia e dal paese. Divenne un latitante e attorno a lui si raccolsero altri paesani che formarono una banda. La “banda Giuliano” cominciò ad attuare colpi sempre più audaci: liberazione di prigionieri dalle galere, assalti alle casermette dei carabinieri e soprattutto sequestri di persona di ricchi industriali e agrari. Resa ricca dai riscatti pagati, la banda - che si calcola abbia eliminato più di 400 tra poliziotti e carabinieri - venne contattata dal movimento separatista che, con azioni di guerriglia, voleva giungere all’indipendenza della Sicilia dall’Italia, un obiettivo che accomunava aristocrazia, latifondisti, gangsterismo americano, ma che godeva di consensi anche nel fronte della sinistra.
A Giuliano, che accettò, venne offerto il grado di tenente colonnello nell’EVIS (esercito volontario per l’indipendenza siciliana), una grande somma di denaro e armamento. Ma la stella del separatismo tramontò nel 1946, quando Roma offrì alla Sicilia un’amplissima autonomia di governo (che dura tutt’ora) e l’amnistia ai militari dell’Evis. Giuliano non accettò, e da quel momento andò alla ricerca di un padrone.
Lo trovò infine il primo maggio del 1947, giorno fatale per la nostra giovanissima repubblica. C’erano appena state, in Sicilia, le prime elezioni amministrative, dopo vent’anni di fascismo, e con grande sorpresa aveva vinto il “blocco del popolo” (Pci e Psi alleati), bruttissimo segno per il sistema di potere siciliano, in un’isola – come si direbbe oggi – di fortissima importanza “geopolitica”.
A votare erano stati i poverissimi contadini, guidati dalle loro leghe; e in duemila, a piedi o sui muli, erano andati a festeggiare, come da antica tradizione anarchica, il primo maggio in mezzo alle montagne di Portella della Ginestra. E lì, in mezzo a un deserto lunare, li aspettava la banda Giuliano che, dalle montagne cominciò a sparare sulla folla: 11 morti e decine di feriti. Non solo, ma nelle settimane successive la banda si incaricò di assassinare decine di sindacalisti e di distruggere le sedi delle leghe contadine. Lo shock fu grande, ma la logica della strage è sempre rimasta in dubbio: una provocazione per provocare la risposta dei comunisti e mettere il partito fuorilegge? Un avvertimento degli agrari al futuro assetto dell’isola? Una mossa della Democrazia Cristiana? Chi aveva dato l’ordine a Giuliano di far strage di contadini? A lui, che era l’eroe dei poveri? Gli agrari? Il ministro degli interni democristiano Mario Scelba? Gli americani con i loro servizi segreti?
Non si saprà mai, la strage di Portella è il rovello degli storici italiani, coperto per decenni dal segreto di stato, oggetto di innumerevoli speculazioni.
Quello che è certo è che Giuliano, dopo Portella, cominciò ad essere ingombrante. Lo Stato italiano schierò un corpo speciale di 1200 tra carabinieri e poliziotti per prenderlo, l’isola venne rastrellata con metodi coloniali, che non piacquero alla mafia (troppi sbirri non fanno bene agli affari), che si decise a “consegnarlo”. Giuliano non ebbe più aiuti, e gli americani ritirarono le promesse di agevolare la fuga della banda verso gli Stati Uniti. La corsa del bandito finì tre anni dopo Portella, in un caldissimo luglio, nel cortile di una vecchia casa di Castelvetrano, in provincia di Trapani. Una fotografia storica in bianco e nero lo mostra riverso sul terreno, con un fucile e una pistola accanto, la versione ufficiale fu che il bandito era stato ucciso in un conflitto a fuoco con la polizia. Era falso, ma tutti (o quasi) si prestarono a non mettere in dubbio quella versione. Faceva comodo.
Nella realtà Salvatore Giuliano venne ucciso, nel sonno, da suo cugino Gaspare Pisciotta (numero due della banda), che, pagato dalla polizia, aveva accettato di tradire. Ma neppure Pisciotta si godette il frutto del tradimento. Morì, quattro anni dopo, nel carcere dell’Ucciardone di Palermo, bevendo un caffè al cianuro. Era diventato uno scomodo chiacchierone.
Salvatore Giuliano appartiene ormai alla storia mitologica della nascita della repubblica italiana, ma chi fu veramente non si saprà mai. Ma la sua vicenda – in particolare la sua morte - è modernissima e, più che i numerosi libri e gli sterminati volumi che la Commissione Antimafia gli ha dedicato – è l’occasione per consigliare la visione di uno dei più grandi capolavori del cinema italiano, il “Salvatore Giuliano” di Francesco Rosi (1962), che indaga sul “falso di Stato” – oggi diremmo “depistaggio di Stato” – della sua uccisione.
L’arroganza della polizia, gli innominabili patti con la mafia, la credulità del nostro giornalismo, l’impotenza della magistratura… Davvero tutto sembra così moderno, si sentono gli echi della cattura di Riina, del tradimento di Falcone e di Borsellino. Davvero, Salvatore Giuliano è ancora tra noi.
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