La vicenda di Stefano Dal Corso, il quarantaduenne romano morto nel carcere di Oristano il 12 ottobre 2022, è finalmente arrivata a una svolta. L’uomo, a cui mancavano pochi mesi alla fine della pena, è stato trovato senza vita all’interno della sua stanza detentiva e la prima ipotesi relativa alle cause della morte, sostenuta dalla Procura, è stata suicidio. La famiglia non ha mai creduto a questa versione, e per questo motivo ha fatto subito richiesta affinché venisse eseguita l’autopsia.
L’istanza per effettuare l’esame autoptico è stata presentata per sette volte e per sette volte, inspiegabilmente, è stata respinta. Solo l’ottavo tentativo, avvenuto nel mese di dicembre, ha avuto esito positivo. L’autopsia è stata fatta nei primi giorni di gennaio, e ora bisogna attendere i tempi tecnici per la relazione dei periti. Inutile dire che i mesi intercorsi dalla morte sono molti, e che si è perso inutilmente tempo di fronte a una legittima richiesta della famiglia Dal Corso.
Il motivo di una così rigida presa di posizione di fronte a una richiesta di approfondimento sulla morte di un uomo che si trovava sotto la custodia dello Stato, è davvero difficile da comprendere. La Procura di Oristano, rifiutando di indagare e chiedendo l’archiviazione del caso, aveva attribuito la causa della morte alla rottura dell’osso del collo a seguito di impiccagione. Se è ancora presto per conoscere gli esiti degli esami effettuati sul corpo di Dal Corso, abbiamo però la certezza che non sono presenti fratture all’osso del collo.
La riapertura delle indagini è stata possibile solo grazie alla testimonianza di due persone detenute nello stesso istituto in cui si trovava Stefano Dal Corso quando è morto, e dalle dichiarazioni di quello che dalla stampa viene definito “supertestimone”: un agente di pubblica sicurezza, non in servizio presso il carcere di Oristano, che però avrebbe informazioni circa la morte dell’uomo e un video che proverebbe le violenze subite da Dal Corso.
La causa scatenante, a sentire queste dichiarazioni ancora tutte da verificare, sarebbe stato un fatto da nulla: Stefano Dal Corso, aprendo la porta dell’infermeria della sezione, avrebbe sorpreso due operatori, forse agenti di polizia penitenziaria, mentre consumavano un rapporto sessuale. È impossibile abituarsi alla banalità delle morti in carcere: suicidi per assenza di cura, scioperi della fame che finiscono tragicamente, decessi per motivi sanitari. Abbiamo imparato come gli eventi critici all’interno di un istituto penitenziario possano essere sintomo di molte cose e la vicenda di Stefano Dal Corso dovrebbe spingere le istituzioni a prendere seriamente ogni morte avvenuta all’interno di un carcere, e rendere obbligatoria l’autopsia ogni qualvolta una persona detenuta perde la vita.
La vicenda di Stefano Dal Corso rievoca le storie di altre persone morte all’interno delle nostre carceri, e che vale la pena ricordare. Marcello Lonzi, morto nel 2003 nel carcere di Livorno, stava scontando una pena di pochi mesi. Le foto scattate il giorno del decesso lo ritraggono riverso a terra in una pozza di sangue, braccia spalancate e ferite sulla testa. Dopo autopsie, ricostruzioni e processi, la causa della morte viene imputata a un – testuali parole – “forte infarto”. Marcello Lonzi aveva 29 anni.
Aldo Bianzino, morto nel carcere di Perugia nel 2007 a due giorni dal suo ingresso in istituto, si trovava lì perché gli erano state sequestrate alcune piante di marijuana che coltivava nel suo giardino e €20, che a detta degli inquirenti erano la prova di un’attività di spaccio. Bianzino viene trovato riverso a terra con indosso solo una maglietta, si parla di un aneurisma, un agente di polizia penitenziaria verrà condannato per omissione di soccorso. Aldo Bianzino aveva 44 anni.
Franco Serantini, morto nel 1972 nel carcere di Pisa dopo essere stato picchiato dalla polizia durante una manifestazione, agonizzò nella sua cella per ore. Il medico non richiese alcun accertamento e gli prescrisse solo un trattamento locale con borsa del ghiaccio. Dopo la sua morte, i periti responsabili dell’autopsia scrissero che Serantini “era portatore di una voluminosa milza, da bambino aveva avuto la malaria, aveva le ossa della testa più sottili del normale e quindi aveva una minore resistenza ai colpi”. Franco Serantini aveva 21 anni (a proposito del suo caso, ricordiamo la nostra intervista fatta a Michele Battini, autore di «Andai perché ci si crede». Il testamento dell'anarchico Serantini, in occasione del cinquantesimo anniversario dalla morte di Franco).
Non sappiamo cosa sia successo a Stefano Dal Corso, certo è che qualsiasi morte in carcere merita minuziose verifiche e ogni approfondimento possibile. Ce lo dice la nostra storia, ce lo dicono le vicende di Lonzi, Bianzino e Serantini, tre uomini che in carcere, e di carcere, sono morti. Purtroppo insieme a tanti altri, di cui non conosceremo mai nomi e storie.
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