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Un futuro oltre l’acciaio: il lavoro possibile di Taranto

L’altro problema, finora, è stata la mancanza di un’alternativa valida all’acciaio: per decenni i tarantini hanno scelto il rischio, la probabilità di ammalarsi per evitare la certezza matematica della fame

«Sono i progetti che cambiano il volto di una città», dice Nicola Sammarco, fumettista della Disney che oggi sta girando una serie animata a Taranto, la città dell’acciaio, la città dei due mari. Lunedì 28 novembre si è tenuto l’ultimo incontro della rassegna Giovani senza mercato, mercato senza giovani, la ricerca di Fondazione Feltrinelli e Adecco sul lavoro giovanile in Italia. Le due inchieste precedenti, Quote rosa, lavoro nero e Di ruolo precario, si erano concentrate sulle città di Napoli e Roma, mentre l’ultima riguarda la città di Taranto: Un futuro oltre l’acciaio. E un futuro diverso, a quanto pare, esiste. Pur tra i più insormontabili problemi e una politica incapace di gestirli, sembra che chi abita tra le vie tarantine abbia trovato un proprio modo per far fronte – da solo – all’emergenza del lavoro.

Gli uomini e le donne di Taranto dismettono le tute blu dell’Ilva, smettono di vedere l’acciaieria come l’unica possibilità di non patire la fame. «Con la buona volontà di tutti, amministrazioni e politica, si potrà cominciare a vivere di tanto altro che non è fabbrica e sudore», e se fino a pochi anni fa le uniche opzioni erano la carriera sul mare o i call center, oggi le cose sembrano cambiare. Gradualmente, ma in modo costante. Certo è difficile oltrepassare un passato che è diventato più un modo di vivere e di pensare la città. Ne è testimonianza la paura di chi lavora in fabbrica e, nonostante i rischi per la salute e le condizioni inumane, non vuole vederla chiudere. Perché la miseria è una certezza, la malattia sembra ancora una sfortuna.

Ne è testimonianza anche chi perde il lavoro a quarant’anni e non riesce a trovarne un altro, e si arrangia come può, tra call center con stipendi da fame e lavori occasionali. La soluzione più semplice sarebbe andarsene. Quella più difficile e bella, invece, è restare e rimboccarsi le maniche.

Per la città la fabbrica sta andando a chiudersi. I giovani non vogliono più fare i metalmeccanici o i siderurgici. Io ho scoperto tanti giovani fonici, macchinisti, runner che puntano sull’arte. Prima chi amava l’arte non aveva la possibilità di esprimersi qui: ora possono farlo nel cinema, nella musica, nella fotografia

Un’arte difficile, che deve redimere, e che è ancora tutta da costruire. Dal cinema al teatro, dalla letteratura alla musica: tutto da fare, perché mancano i mezzi ma, soprattutto, manca una cultura. Si guarda sempre con diffidenza al nuovo, e questo è un modo nuovo di intendere il lavoro, per Taranto. Perché chi è rimasto non vuole che le cose restino come sono, pericolose, ma non vuole neppure assumersi il rischio di cambiarle. Chi è rimasto sa che la sua salute, intorno alle ciminiere della fabbrica, è appesa a un filo, sempre, e tra quel fumo è difficile vedere altra soluzione che non sia andare via.

Gli stessi che oggi sono terrorizzati dall’ipotesi che la fabbrica chiuda: per loro, a differenza dei giovani, non c’è entusiasmo né salti audaci o slanci del cuore

Non c’è entusiasmo perché i numeri fanno davvero spavento: il 35% degli abitanti nella provincia di Taranto è disoccupato, il che equivale a circa 98mila persone. Un numero enorme che farebbe desistere chiunque dal rinunciare al proprio salario fisso. E allora sono proprio i giovani – devono essere loro – a trainare verso una città nuova, che ospiti tra le sue strade arte e cinema. Una Taranto rinata dall’acciaio, centro finalmente vivo e aperto al nuovo, al rischio e alla bellezza.

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