Lunedì 8 gennaio 2023
Volevo scrivere anch’io su Vialli e mi ricordavo, ma vagamente, una vecchia storia. Gira e rigira, l’ho ritrovata in una pagina di giornale di 32 anni fa. Era un mio articolo per “la Stampa”, del 23 gennaio 1991 e cominciava così:
“Quando la signorina Silvana Vialli mi ha telefonato per raccontarmi la vicenda sconosciuta di suo padre Vittorio, non ho potuto fare a meno di domandare: “Parente di Gianluca Vialli il calciatore?”.
“ Sì, è mio cugino, me lo chiedono tutti, per gli autografi. Lui mi manda dei pacchi di fotografie e io sono autorizzata a firmarle”.
Gianluca, allora, stava per vincere lo storico scudetto con la Sampdoria. Sì, ma Vittorio chi era?
La sua storia non era meno eccezionale.
Geologo e antropologo, tenente di Marina nella seconda guerra mondiale, dopo l’8 settembre 1943 venne arrestato dai tedeschi nel canale di Corinto e deportato in campo di prigionia. Faceva parte di una schiera di seicentomila soldati del nostro Regio Esercito e della nostra Regia Marina, tra cui vi erano 30 mila ufficiali. Che furono catturati nei giorni seguenti l’armistizio di Badoglio e trasportati in “campi” sparsi tra la Polonia e la Germania. I tedeschi non applicarono la Convenzione di Ginevra per i prigionieri di guerra perché consideravano gli italiani dei “traditori”; e quindi poco cibo, angherie, freddo: 40.000 morirono. Agli altri, periodicamente, venne offerto di arruolarsi nelle SS e di combattere in Italia con la Repubblica di Salò.
Pochissimi accettarono, la stragrande maggioranza scelse di soffrire piuttosto che tradire il Re, la Patria e la propria dignità.
Ma il tenente Vittorio Vialli aveva un’arma segreta: una macchina fotografica Zeiss Ikonta formato Leica, di piccole dimensioni e smontabile, che riuscì a nascondere per quasi due anni, spesso nascondendola nelle mutande. Aveva anche alcuni rullini, e altri li ottenne in Polonia, nei mercatini al bordo del campo, dove gli italiani offrivano catenine d’oro, soldi, monete in cambio di cibo e maglie di lana. Con la Leica, Vialli – rischiando la fucilazione se fosse stato scoperto – scattò più di trecento foto in cui sono documentate le angherie, la fame, la resistenza degli italiani (tra di loro ci sono prigionieri che diventeranno famosi, lo scrittore Giovannino Guareschi, il disegnatore Giuseppe Novello, l’attore di teatro Gianrico Tedeschi).
Vialli riuscì anche a fotografare il responsabile di un omicidio avvenuto nel campo. Liberati dagli inglesi, aprile 1945, nel campo di prigionia vicino ad Amburgo, Vialli ebbe la possibilità, con gli inglesi, di prendere visione del campo di sterminio di Bergen Belsen, al quale gli IMI (Internati Militari Italiani) erano destinati. Poteva fotografare ancora, ma non lo fece per rispetto dei morti.
L’unica sua foto a Bergen Belsen mostra un tumulo su cui è scritto il nome di una ragazza ebrea italiana di quindici anni. Si chiamava Lidia Nicolosi.
La ragione di quel vecchio articolo era che Vittorio Vialli, diventato un grande professore di geologia e antropologia all’università di Bologna, era riuscito finalmente a pubblicare il suo eccezionale documento. Il libro si chiamava Ho scelto la prigionia, conteneva i suoi eccezionali scatti fotografici e vantava una prefazione di Sandro Pertini.
Una nuova versione del libro, con lo stesso titolo è stata pubblicata dal Mulino nel 2020.
Per essere sicuro di non sbagliarmi, ho chiamato ieri Bruno Vialli, figlio di Vittorio. Mi ha confermato tutto (La Leica ce l’ha lui) e mi ha aggiunto che suo padre era un tipo molto spiritoso, allegro, attivo, caratteristiche che deve aver passato a Gianluca.
Che bravi questi Vialli, capaci di grandi imprese!
Come si dice in gergo, la classe non è acqua.
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