Lo stato dell’arte è un ciclo di eventi realizzati da Marsilio Arte con Palazzo Grossi, a Venezia, in cui si dialoga con autori contemporanei sull’essenza attuale dell’arte e si chiede loro uno scritto inedito.
Fra loro, Rachel Cusk, una delle autrici americane più apprezzate nel panorama contemporaneo, dà alla luce un’opera breve eppure densa e necessaria, Controfigura. L’artista e il suo doppio. Gioca con le fattezze dell’arte e con la marginalità di chi la crea, personalità toccate dall’estro ma poco premiate nella loro essenza sociale. Si confronta con l’essere donna, con le differenze di genere, di stato, di pelle.
Indagando sui temi della creazione artistica e del suo rapporto con il genere e la marginalità, Rachel Cusk riflette su cosa vedono e provano coloro che sono ai margini del processo creativo, come le donne o gli artisti neri, o chi resta «dietro lo specchio». Ogni atto artistico è una dichiarazione pubblica sul mondo che verrà, ogni domanda che ne chiarisca il senso può aiutarci a definire il nostro futuro, perché ci interroga sulla geometria dei rapporti umani nell’universo che vogliamo costruire.
Da alcuni di questi artisti, dalle loro esperienze, trae spunto per una riflessione sul presente dell’arte, sulle sue incisioni inscalfibili dell’anima, sul suo ruolo di contatto e contrasto con il sé.
Narra la vicenda di Paula Modersohn Becker e suo marito Otto, entrambi dediti all’arte, ma appartenenti a due generi diversi e, per questo, mantenuti sotto una luce complessa, che premiava uno e sfavoriva l’altra, nonostante la fiorente necessità pittorica che si respirava nelle opere di lei.
Il marito si è addormentato su una sedia, completamente vestito, senza nemmeno togliersi gli occhiali. L’opera è un esercizio di moderato stupore: stupore per il misto di familiarità e inconoscibilità di quell’essere, suo marito, stupore forse per il diritto che si arroga addormentandosi in quel modo, stupore per il proprio potere d’artista di vederlo quando non sa di essere guardato – è così che una donna percepisce il marito dal fondale del proprio asservimento.
Oppure è commovente la riflessione su Norman Lewis e il suo gioco di luci e ombre – i contrasti che muovono tutto e su cui tutto sembra esser già detto, eppure nelle parole di Cusk, fra le sue controfigure, ogni cosa è nuova ma al suo posto. Un’oscurità che ha la potenza di lama nella carne, che non lascia scampo e fa che la verità del sé sanguini e venga fuori, sgorghi nella sua potenza, non è forse questa una massima espressione di ciò che la vita intensa è?
Ciò che è marginale diventa centrale in seguito, dopo che le guerre dell’ego sono state combattute, come un pacificatore che arriva sul campo di battaglia a confitto finito. Ho letto che Norman Lewis riteneva che l’arte fosse inutile come strumento di cambiamento politico. Esercitò invece il diritto individuale di cercare una giustificazione estetica, una sorta di moralità salvifica in sé.
L’autrice racconta un’esperienza di distacco dalla realtà, dopo un’aggressione subita, come se il suo doppio – caro tema dell’arte – prendesse vita lì, in tutta la sua oscurità, in tutto il suo chiedere spazio e differire dalla forma vivente della sua essenza. Come se la sua controfigura fosse stata colta all’improvviso da quella violenza, dalla sua impossibilità di previsione e vibrasse nella forza di questo atto.
Una riflessione preziosa che si acquatta beata tra le pieghe del nostro sentire ed eleva la potenza del gesto artistico, saldandone l’importanza, grazie ai suoi contrasti totalizzanti come alle sue linee poco chiare, affermando il diritto alla sfumatura, alla nettezza. Accade nell’arte come nella vita, in fondo una come controfigura sublime dell’altra.
E i suoi doni erano questi, i doni di una controfigura: violenza e silenzio
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