Una gravidanza, una relazione, una vita, un libro.
Tutte cose che, in teoria, una donna di quasi quarant’anni dovrebbe volere.
Tutte queste cose un po’ si assomigliano: scrivere un libro è un po’ come fare un figlio che è un po’ come avere una relazione che è un po’ come vivere una vita.
Scritte sulla pagina sono parole astratte, lineari, che sembra non abbiano nulla a che vedere con la vita vera, con l’alzarsi presto la mattina, l’allattare durante la notte, con il corpo che cambia, si trasforma, diventa irriconoscibile, l’altro che diventa l’unica via di fuga ma anche causa di dolore, di litigi.
Non è mai il momento giusto per fare un figlio. Prima vogliamo vivere, viaggiare, lavorare. Antonella vuole diventare una scrittrice: la sua è un’ambizione assoluta, senza scampo. Per questo a vent’anni, per due volte, interrompe volontariamente la gravidanza. Quando anni dopo si sente invece pronta, con un compagno a fianco, è il suo fisico a non esserlo. E così inizia l’iter brutale dell’ostinazione, dell’ossessione, della medicalizzazione. Certi supplizi, le aspirazioni inconfessate, la felicità effimera e spavalda, la sofferenza e la collera. Si direbbe una storia già scritta, ma qui non c’è nulla di consueto: è come raccontare da dentro una valanga, con la capacità incredibile, rotolando, di guardarsi e non crederci, e sfidarsi, condannarsi, sorridersi per farsi coraggio. In un crescendo di indicibile potenza narrativa, Antonella Lattanzi descrive (sulla sua pelle) la forza inesorabile di un desiderio che non si ferma davanti a niente, ma anche i sensi di colpa, l’insensibilità di alcuni medici, l’amicizia che sa sostenere i silenzi e le confidenze più atroci, il rapporto di coppia sempre sul punto di andare in frantumi, la rabbia ferocissima verso il mondo (e le donne incinte). Tenendo il lettore stretto accanto a sé, incollato alla pagina, con un uso magistrale del montaggio, capace di creare una suspense da thriller. La cosa strabiliante è che pur raccontando una storia eccezionale, e cruda, questo romanzo riesce in realtà a parlare in modo vero, e profondamente attuale, di tutte le donne – madri e non madri – che in un punto diverso della loro vita si sono chieste: desidero un figlio? qual è il momento giusto? dovrò rinunciare a me stessa, alle mie ambizioni? e perché tutte restano incinte e io no? «Ho una diga nella testa dove stanno nascoste tutte le cose che fanno davvero troppo male. Quelle cose, io non voglio dirle a nessuno. Io non voglio pensarle, quelle cose. Io voglio che non siano mai esistite. E se non le dico non esistono».Proposto da Valeria Parrella al Premio Strega 2024 con la seguente motivazione: «Credo che l'anno trascorso sia stato ricco di bei libri, eppure io non ho dubbi, per una volta, su quello che secondo me ha meglio rappresentato la nostra letteratura ed è il romanzo di Antonella Lattanzi "Cose che non si raccontano" edito da Einaudi. È un romanzo rappresentativo di un momento privato che però sa raccontare di quanto esso sia condizionato dallo sguardo altrui, di quanto, cioè, non una società qualunque ma proprio la nostra, quella italiana degli anni 2020, quella post pandemica, possa essere giudicante e richiestiva davanti alla materia più complessa e preziosa dell'esistenza: il corpo delle donne. "Cose che non si raccontano" è un romanzo sul desiderio, anzi su due desideri da cui questo corpo delle donne molto spesso viene straziato: il desiderio di autoaffermazione, di ambizione, di realizzazione lavorativa che si scontra inesorabilmente contro un altro desiderio totalizzante: la maternità. Quando è troppo tardi per provare a fare un figlio? Vi è inoltre, secondo me, il superamento dell'ormai abusata tecnica dell'autofiction, con un felice ritorno all' autobiografia dichiarata, pura: quella, per intenderci, che viene da Natalia Ginzburg e dai più riusciti racconti di Anna Maria Ortese. Per tutti questi motivi e, non ultimo, perché credo che Antonella sia arrivata a una maturità formale compiuta, vorrei avere l'onore di presentarlo al Premio e agli Amici della domenica.»
Nel tempo, mi è capitato spesso di ragionare sui desideri, in generale cosa significhi averne e, in particolare, cosa significhi desiderare una famiglia, dei figli, una vita domestica e cosa invece voglia dire il contrario, non volerne, di figli, scegliere un altro tipo di vita.
Quando si parla di desideri, soprattutto di desideri di donne, sembra di parlare di qualcosa di irrevocabile, solido: vuoi una cosa o non la vuoi. Vuoi essere mamma o non lo vuoi. Vuoi concentrarti sulla tua carriera oppure vuoi una famiglia: non c’è spazio per dubbi o esitazioni.
La protagonista di Cose che non si raccontano non è tanto un personaggio, quanto una persona, e come tale è divorata dai dubbi. Lattanzi sceglie di raccontare il suo percorso, estremamente doloroso perché estremamente reale, della scelta di essere madre prima e delle realtà spaventose della fecondazione assistita.
Dico “sceglie” perché come ribadisce più volte durante il romanzo, raccontare è una scelta, anche se delle volte l’unica possibile. Pagina dopo pagina, parola dopo parola, lei si promette e ci promette di essere sincera, e quindi lo è fino allo sfinimento, finché non ci ha raccontato tutto, anche le cose che non si raccontano: una gravidanza che non è fonte di felicità, o perlomeno non solo, è una parte della vita e come tutte le parti della vita è complessa, inarrivabile, dolorosa, incredibile.
Una relazione che non è solo fonte di conforto ma una relazione vera, quindi tenera, a tratti terribile, astiosa, piena di silenzi e amore.
E, infine, una vita che non è solo raccontata, o da raccontare, ma è una vita vissuta, e quindi in quanto tale, spaventosa, e dolcissima.
Dopo averlo finito, ho avuto voglia di prendere il telefono e ringraziare Antonella Lattanzi, anche se non la conosco, per aver trasformato in letteratura la sua vita, anche nelle sfaccettature più scabrose, e per aver raccontato quella paura che – quasi – nessuno racconta mai: quella che i nostri desideri, giusti o sbagliati che siano, un giorno diventino reali.
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