Una gravidanza, una relazione, una vita, un libro.
Tutte cose che, in teoria, una donna di quasi quarant’anni dovrebbe volere.
Tutte queste cose un po’ si assomigliano: scrivere un libro è un po’ come fare un figlio che è un po’ come avere una relazione che è un po’ come vivere una vita.
Scritte sulla pagina sono parole astratte, lineari, che sembra non abbiano nulla a che vedere con la vita vera, con l’alzarsi presto la mattina, l’allattare durante la notte, con il corpo che cambia, si trasforma, diventa irriconoscibile, l’altro che diventa l’unica via di fuga ma anche causa di dolore, di litigi.
Nel tempo, mi è capitato spesso di ragionare sui desideri, in generale cosa significhi averne e, in particolare, cosa significhi desiderare una famiglia, dei figli, una vita domestica e cosa invece voglia dire il contrario, non volerne, di figli, scegliere un altro tipo di vita.
Quando si parla di desideri, soprattutto di desideri di donne, sembra di parlare di qualcosa di irrevocabile, solido: vuoi una cosa o non la vuoi. Vuoi essere mamma o non lo vuoi. Vuoi concentrarti sulla tua carriera oppure vuoi una famiglia: non c’è spazio per dubbi o esitazioni.
La protagonista di Cose che non si raccontano non è tanto un personaggio, quanto una persona, e come tale è divorata dai dubbi. Lattanzi sceglie di raccontare il suo percorso, estremamente doloroso perché estremamente reale, della scelta di essere madre prima e delle realtà spaventose della fecondazione assistita.
Dico “sceglie” perché come ribadisce più volte durante il romanzo, raccontare è una scelta, anche se delle volte l’unica possibile. Pagina dopo pagina, parola dopo parola, lei si promette e ci promette di essere sincera, e quindi lo è fino allo sfinimento, finché non ci ha raccontato tutto, anche le cose che non si raccontano: una gravidanza che non è fonte di felicità, o perlomeno non solo, è una parte della vita e come tutte le parti della vita è complessa, inarrivabile, dolorosa, incredibile.
Una relazione che non è solo fonte di conforto ma una relazione vera, quindi tenera, a tratti terribile, astiosa, piena di silenzi e amore.
E, infine, una vita che non è solo raccontata, o da raccontare, ma è una vita vissuta, e quindi in quanto tale, spaventosa, e dolcissima.
Dopo averlo finito, ho avuto voglia di prendere il telefono e ringraziare Antonella Lattanzi, anche se non la conosco, per aver trasformato in letteratura la sua vita, anche nelle sfaccettature più scabrose, e per aver raccontato quella paura che – quasi – nessuno racconta mai: quella che i nostri desideri, giusti o sbagliati che siano, un giorno diventino reali.
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