«Sì caro Herzen, io vi credo e so che la nazione russa è infelice, ed ha alte tendenze, al pari delle altre nazioni, e che non è colpevole degli orrori di Varsavia e di Vilna. (…) Mi sembra però che la Polonia, ove il Governo russo flagella le donne e appicca gli adolescenti, dovrebbe destare la compassione del popolo russo, almeno in quella più nobile parte del medesimo alla quale voi appartenete, e provocare, meglio che non a parole, una protesta solenne».
Così Garibaldi scrive al padre del populismo democratico russo Alexander Herzen il 15 ottobre 1863. Tra i due corre una grande stima. Herzen lo ricorda nel suo Il Passato e i pensieri (Einaudi), Leone Ginzburg, nel 1932, gli dedicherà una riflessione proprio sul valore di quell’amicizia in un tempo - gli anni della grande crisi economica e del pericolo di una nuova guerra - in cui l’Europa era di nuovo alla ricerca di se stessa.
Non è l’unico documento presente in questo libro che vale la pena leggere, anche grazie alla presentazione «calda» di Renato Zangheri.
Il Garibaldi di queste pagine è il combattente per la libertà e l’indipendenza italiana. Ma anche: l’uomo addolorato per l’offesa che il potere aristocratico, delle corone e quello della Chiesa fanno nei confronti del popolo.
Socialista, fu universalmente famoso, e per decenni uno dei personaggi più amati dagli europei. Le sue azioni vennero cantate dai rivoluzionari di ogni paese. Il suo volto servì di simbolo, dopo il 1945, per l’unità delle sinistre. Oggi, nel disastro della nostra scuola e nella dimenticanza del nostro passato e dei suoi personaggi più alti, è sacrosanto che lo si riscopra e che se ne consideri l’esempio. Viva Garibaldi!
Non è l’unico documento presente in questo libro che vale la pena leggere, anche grazie alla presentazione «calda» di Renato Zangheri.
Il Garibaldi di queste pagine è il combattente per la libertà e l’indipendenza italiana. Ma anche: l’uomo addolorato per le offese perpetrate ai danni del popolo da parte del potere aristocratico, delle corone e quello della Chiesa.
L’uomo che desidera combattere per il riscatto degli schiavi d’America, e quello che prova dolore per i morti della Comune.
Il sognatore di un domani di riscatto nell’adesione all’associazionismo democratico e operaio che prova, all’indomani dell’Unità, a trovare le vie e le forme per intraprendere un percorso di emancipazione sociale; l’uomo che non sa trovare le parole per rompere il muro di silenzio con Giuseppe Mazzini.
Il Garibaldi che esce da questa raccolta è molto diverso dall’icona che è entrata nella memoria pubblica: c’è l’uomo colpito nei lutti famigliari nei giorni della morte di Anita e il generale in rotta che si preoccupa della salvezza e della vita dei suoi «picciotti».
Forse in maniera sorprendente (per chi è affezionato all’icona) c’è l’uomo che non dimentica che quella delle armi non è né una sua scelta né la sua vocazione naturale. Nel novembre 1870, dopo aver gioito per la caduta di Napoleone III, ma triste per la nuova potenza rappresentata dal Reich guglielmino, scrive: «sono nemico della pena di morte ed amico della pace e la fratellanza umana, mi trovo a fare la guerra che è l’antitesi de’ miei principi».
«Sono nemico della pena di morte ed amico della pace e la fratellanza umana, mi trovo a fare la guerra che è l’antitesi de’ miei principi».
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