Anatomia di un'ossessione.
Locus desperatus è l'ultimo fantasmagorico romanzo di Michele Mari uscito per Einaudi.
Per parlare di un libro che nulla lascia al caso, ma che vede ogni parola come una freccia precisa, scoccata nell'aria con infallibile mira, la scelta delle parole deve essere altrettanto chirurgica.
E "fantasmagorico" è un aggettivo che ben racchiude in sé, etimologicamente, la natura di questo libro; scomponendola nelle due parole d'antica origine greca che la compongono: phantasma «apparizioni», e agoreuenin «manifestare», significa letteralmente manifestare apparizioni.
E questo è senza dubbio quel che fa questo libro, inscena una "fantasmagoria" a tutti gli effetti, intendendo invece con tale sostantivo quella particolare forma di teatro che nel XVIII secolo si arricchiva di effetti speciali grazie a delle “lanterne magiche” – antesignane dei proiettori – in grado di creare e portare in scena immagini ch'erano ombre, mutevoli, mostruose o fantastiche.
L’io narrante di Locus desperatus, abita una casa che è per lui “tana- museo”, dove trovano appunto abitazione, o per meglio dire esposizione, una quantità incalcolabile di cose, collezioni di ogni tipo, libri di ogni genere, oggetti di ogni valore, occupando come in preda a un horror vacui di fondo, tutto lo spazio e il tempo del protagonista, quello del presente come quello della memoria. Ma la casa e le cose non sono che un'estensione del Sé.
La realtà che ci troviamo a osservare, infatti, non è che la sua proiezione sul fondo della caverna. Quello che ci troviamo a osservare non è che l’ombra - allungata, rimpicciolita, distorta - di ciò che è reale.
Potevo negare, io trepido personaggetto, di aver riposto la mia identità in quelle cose, investendole, fidandomi di loro ed a loro? Così, li avrei battuti sul tempo, derubando me stesso ed eludendo la croce…
L’autore di Verderame e di Leggenda privata ci consegna una stramba discesa agli inferi e insieme una spietata tassonomia dei ricordi. Un romanzo tormentato e divertente sul senso ultimo che diamo agli oggetti: «Senza le mie cose io non sarei stato più io, e senza di me loro non sarebbero state più loro».
Una mattina sulla porta dell’appartamento compare uno strano segno fatto col gesso: una croce, «non infatti un segno, ma IL segno: e che segno! Ancorché anacronistico, se riferito al testamento antico… Cercai di ricordare il passo preciso, i due angeli segnavano le case che dovevano essere distrutte o quelle che sarebbero state risparmiate?».
La casa dunque è segnata, il narratore cerca d’interpretarne il significato dietro il significante di gesso, quale l’intento dietro il gesto del crucifero («sarei stato distrutto con tutte le cose mie, oppure sarebbero stati distrutti gli altri, tutti eccetto me?»); ma la faccenda non è mai del tutto chiara.
Apparizioni di strani personaggetti, che sembrano usciti dai racconti di Hoffmann, si manifestano (“manifestare apparizioni”) per consegnare un messaggio che sembra avere una genesi ultraterrena: una sorta di "annunciazione", ma di sfratto. Queste creature, infatti, sembrano aver scelto la sua casa per una certa missione che sembra essere di grande importanza e alta necessità: sostituire l’abitante della tana-casa, della casa-labirinto, con una sorta di ultracorpo a impossessarsi delle sue cose.
«Ma», dissi con la consapevolezza di tergiversare, «voi l’avete scelta, la mia casa, io non ho scelto niente».
Le sue labbra sottili si piegarono a un accenno di sorriso. «Non prendetevela», replicò, «ma voi e noi apparteniamo a due categorie differenti».
«Voi?»
«Noi siamo Loro, quelli che fanno i segni sulle porte. Voi siete voi, quelli che hanno le porte, e quel che vi tocca vi tocca. È sempre stato cosí».
Nell’universo di Locus Desperatus esistono, infatti, i corpi e gli ultracorpi.
Le cose e la loro imago. Anche l’ego ha il suo doppio. Tra il mondo delle idee e quello delle cose c’è la percezione del narratore, il suo pensarle «[...] anche da lontano voi continuate a pensarle, ed esse, sapendosi pensate, rimangono tranquille ed uguali a se stesse».
Ossessione e paranoia guidano lo sguardo con cui contempla il suo regno:
Ero re: delle mie cose, delle mie collezioni, dunque di me, che in quelle collezioni avevo sistematicamente trasferito ogni mia più intima particola, fino a ricomporvi un’analitica e dissociata entelechia
E questo sfratto a cui l’io narrante si scopre improvvisamente sottoposto, passa proprio dall’attività onirica, dal pensiero e dalla memoria.
Il "processo di delibazione" messo in atto da questa schiera demoniaca di esseri grotteschi attraversa infatti la graduale sottrazione di ogni rappresentazione mentale che il protagonista ha della propria casa.
E la cancellazione della memoria innesca, a sua volta, un’alterazione dello stato delle cose: i volti nelle fotografie si sfocano e perdono la loro riconoscibilità, le parole (anch’esse reificate) s’ingarbugliano sulla pagina originando un “caos alfabetico” obliandosi come esperienza di lettura; le cose stesse hanno paura e o disertano o cambiano forma: persino «il vaso ha paura ed enfatizzando la propria estetica ne trae occasione di morte».
Man mano che la memoria va scomparendo e gli oggetti vanno alienandosi dal soggetto, l’identità perde se stessa: si sfoca e si oblia.
A furia di circondarvi di cose, amandole, collezionandole, vi ci siete a poco a poco trasferito, regalando loro quote sempre più consistenti della vostra personalità. Le avete personificate, giusto? e nel contempo vi siete spersonalizzato. Credevate di possedere, e sarà stato pur vero: solo, vi siete spossessato. Sicché noi – noi – io o il buffone di prima o certi altri che non oso nemmeno nominare, per prendervi l’anima non dobbiamo fare altro che prendere le vostre cose
Come un Mazzarò verghiano che grida «rroba mia, vientene con me!», l’unico sentimento che l’io narrante sembra aver sperimentato nella sua vita è quello dettato dalla soddisfazione del possesso; alla minaccia dunque di venire detronizzato e spodestato "dal suo regno", l'ossessione rinvigorisce.
Con una scrittura gaddiana, rocambolesca e onirica, Michele Mari ricama abilmente sul metafisico e sa cucire insieme altissimi momenti letterari – intarsiati di echi e riferimenti aulici – e incursioni nell’esplorazione del basso corporeo e della visceralità, contemplati con felliniano estetismo. Tutto, nella lingua di Mari, si fa e si disfa, imago ad similitudinem d'una realtà mai uguale a se stessa, che vede nessun uomo immergere piede due volte nello stesso fiume. Il mondo: un polimero fuso, fuso a forma di letteratura.
Ed è la vendetta del mondo, perché la letteratura che non si difenda dal mondo cos’è, se non mondo? E il mondo è qui polimero fuso: ma fuso a forma di letteratura, così, volessimo uscire, sappiamo che non si può, nemmeno ogni tanto
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