Se dovessi scrivere cosa mi affligge, arriverei qui
I personaggi di Ottessa Moshfegh hanno sempre a che fare, in modo o nell’altro, con l’annichilirsi. Tentano tutti, cioè, di annullarsi, o vi sono costretti, o il mondo li porta proprio lì, nella zona del non essere più – ricordate il sonno de Il mio anno di riposo e oblio, no? In McGlue, edito da Feltrinelli nel 2024 ma libro d’esordio dell’autrice, il desiderio del protagonista è lo stesso: scivolare nel nulla, smettere i panni dell’individuo per liberarsi dalla responsabilità di esistere.
Salem, Massachusetts, 1851: McGlue è tenuto sotto chiave nella stiva di una nave, ancora troppo ubriaco per essere sicuro del proprio nome, della situazione e del proprio orientamento: potrebbe aver ucciso il suo migliore amico. La memoria intollerabile di ciò che è accaduto si accompagna ai suoi sprazzi di sobrietà.
Si potrebbe pensare che molti di noi attraversano fasi della vita più o meno lunghe in cui provano sensazioni del genere, una stanchezza dell’essere per così dire. Eppure se quasi in ogni circostanza – se non nella vita, quantomeno in letteratura – le cause sono chiare, nei libri di Moshfegh e qui in particolare, non c’è nessuna ragione per cui McGlue dovrebbe stordirsi con l’alcol fino a scomparire. È solo la sua natura, una natura universale, perché tutti riusciamo a ritrovarci, un atteggiamento che sembra congenito alla condizione umana: è l’incarnazione del monito antico di Sileno «meglio sarebbe per l’uomo non essere mai nato». E da queste premesse comincia la storia.
Sono ancora troppo ubriaco perché me ne importi
McGlue è su una nave, si sveglia su una branda ed è intontito perché la sera prima, come ogni giorno che dio gli ha dato, si è ubriacato. Questa volta, però, qualcosa non va, perché insieme al vento che scricchiola il legno vecchio e allo sciabordio delle onde sente anche le voci intorno a lui – un po’ confuse e ovattate – ripetergli che ha ucciso Johnson. Questo gli costerà caro, dicono, c’è il massimo della pena per una cosa del genere. Ma lui non sa di cosa stiano parlando, e così ci ride su, ma quando anche il capitano scende sottocoperta per accusarlo, allora McGlue si convince di essere nei guai. Ma lui, quel Johnson di cui parlano non può averlo ucciso. Anzi, si può dire, in qualche senso, che i due si amassero.
Che si amassero nell’unico modo in cui si possono farlo i personaggi di Moshfegh, e cioè di un amore torbido, violento, crudele. L’amore che rappresenta l’autrice è sempre un amore che prevarica l’altro, lo vuole assoggettare – è un sentimento che si nutre della debolezza, una lotta tremenda da cui, Johnson ne è l’esempio, solo uno esce vivo.
McGlue è un ragazzino quando incontra Johnson. È scappato di casa, vuole far fortuna, e l’altro, più grande, affascinante, con un cavallo e una pistola, gliela promette. Gli fa scoprire il vizio, terribile, dell’alcol, e quello rabbioso del sesso – con le donne, tante e deboli, masticate e sputate, e tra loro due. Qualcuno trova anche da ridire su quella passione oscena, ma Johnson e McGlue sono creature di un altro mondo, demoni impavidi e pericolosi perché fanno di tutto per smettere i panni della propria umanità, troppo ingombrante, per vestirne di più fatali.
[...] amo di più quando soffrono terribilmente e sono piene di rabbia
McGlue è pieno di realtà. Talmente pieno che fa venire il voltastomaco, perché non rappresenta il mondo come vorremmo, ma nella sua essenza – che poi, per Mashfegh, è il male. I libri buoni sono quelli che ti fanno venire i brividi mentre leggi, perché ci vedi dentro tanta verità che non puoi non averne paura. Ecco, qui succede questo, vengono i brividi. Quando McGlue infila le dita dentro il taglio e la spaccatura che si è fatto alla testa per cavarsi il cervello, noi siamo disgustati non tanto per quelle unghie che frugano tra sangue, ossa e pus, ma perché ciò che sta facendo riverbera in noi che leggiamo. È l’atto ultimo della nostra bestialità che per non sentire, per non pensare più oltre, per essere qualsiasi altra cosa fuorché un essere cosciente, disperata, tenta di strapparsi il centro della ragione, dell’umano – sentimento questo universale, come si diceva.
La realtà, dentro questo libro, deborda, è disgustosa ed eccessiva, e noi lettori dobbiamo fare una scelta: possiamo chiudere il libro e lasciarci travolgere dalla repulsione, oppure possiamo costringerci a guardare e a riconoscerci in quel fondo scuro e mefitico. Vi consiglio, con tutto il cuore, la seconda via.
Pensare a Johnson mi fa venire male alla testa. Dev’essere lì a scavarmi nel cervello con un’unghia lunga. Me lo immagino rannicchiato lì dentro che guarda disgustato tutto il marciume e il liquame che gli sguazza intorno e sventola il cappotto per tenerlo pulito. Conosco tutti i suoi gesti, tutte le sue piccole manie
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