Gióst e ingióst dir che chi dróva al dialett
l’è arvultê indrê vers al pasê, vést che
scréver l’è ander in seirca e chi ’s ghe mett,
qualunque diresioun intima che
po’ a ciaparà, seimper al catrà ’d nett
l’avgnìr. Bel dir in dialett ai can se
apeina un bris randag, ai gat ch’i nàsen
a l’improvis s’un mur, ch’i mort i arnàsen.
Giusto e ingiusto affermare che chi usa il dialetto
è volto al passato, visto che
scrivere è ricercare e chi cerca,
qualunque direzione interiore
poi prenda, troverà sempre e comunque
il futuro. Che bello dire in dialetto a cani
appena un poco randagi, ai gatti che sbocciano
all’improvviso su un muro, che i morti rinascono.
La poesia di Emilio Rentocchini consta essenzialmente di trecento ottave ciascuna scritta per così dire due volte: nel dialetto di Sassuolo e in italiano. Si tratta di ottave perfette secondo la tradizione metrica (ABABABCC) di questa strofe che, dai poemi cavallereschi del Duecento fino al Boiardo e all'Ariosto, appartiene alla poesia epica e narrativa; ma, Rentocchini, con un'invenzione geniale, la strappa dal suo contesto e trasforma ogni ottava in una poesia autonoma di natura essenzialmente lirica.
Scrivere poesia significa guardare indietro, essere nutriti solo di passato?
E, a maggior ragione, si rivolge solo al passato quel poeta che scriva addirittura in dialetto, cioè in una lingua usata da pochi, difficile da intendere per i lettori non della sua comunità?
Se lo chiede Emilio Rentocchini (1949), che scrive nel dialetto di Sassuolo e che dagli anni Novanta lo fa attraverso il filtro elettivo di una forma chiusa della tradizione: l’ottava.
Non quella narrativa dei poemi cavallereschi, ma l’ottava isolata, conclusa in sé stessa, con una intonazione tra lirica e filosofia.
Dunque nei testi di Rentocchini si sommano due anacronismi, se così si vuol dire: il dialetto (con sottostante traduzione in italiano) e la forma chiusa. È come se la voce del poeta contemporaneo fosse fatta passare per un pertugio stretto e forzoso. E da lì, da quel forame, da quella occlusione, che cosa sgorga? Il poeta, a più riprese tra le trecento ottave complessive che ha fin qui messo insieme, si interroga sul suo fare poetico. Nell’ottava che porta il numero 233 si chiede, appunto, se questo poetare in una lingua chiusa, marginale, opaca per il parlante italiano, sia il segno di una regressione.
Tuttavia, appena ipotizzato, il pensiero è messo in dubbio.
Perché, dice Rentocchini, qualunque scrittura è una ricerca intima, segreta, nei nodi del sé e in qualunque lingua si esprima, maggioritaria o isolata, quella lingua diviene per ciò stesso un’avanguardia del pensiero. Insomma, il punto è l’autenticità della poesia, la quale una volta trovata la sua lingua, per quanto familiare e terrena possa essere, sa servirsene per forare il muro del mistero, per interrogare la nostra comune sorte di umani senza orientamento e sapere, sperduti nell’intrico dei giorni, delle stagioni.
Scrivere in dialetto, suggerisce l’autore nella Premessa al volume che raccoglie le 300 ottave, è un po’ come usare una lingua senza diritto di cittadinanza e insieme pullulante di significati nascosti: «La lingua materna, morbida e calda, mi suona come il misterioso latino delle litanie in bocca ai nostri vecchi. E come quella non necessita di comprensione».
Poco prima Rentocchini scrive anche: «Le mie ottave sono scritte nel dialetto di Sassuolo, e quando le leggo sottovoce mi sembra un po’ di pregare».
Talvolta, in effetti, la strofa del poeta diventa verticale, mira al punto misterioso del nostro non-sapere. Come alla fine dell’ottava 233, dove parlando a cani randagi e a gatti che sbucano fuori, si può misteriosamente, quasi segretamente, alludere a una vita che non muore.
Il dialetto è il passato, la poesia è l’arte di un tempo che fu?
Piuttosto essa è la concentrazione della lingua in uno spazio ristretto, obbligato e dunque densissimo, tale da trasformare il quotidiano in contemplazione, il passato in futuro, la nostalgia in desiderio.
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