Come in tutte le cose di questo mondo, e certamente di tutti gli altri, il giudizio dipenderà dal punto di vista dell'osservatore
Raccontare Saramago o recensire un suo romanzo è impresa pretenziosa e forse inutile. Tanto varrebbe scrivere «leggetelo», magari tutto in bold stampatello LEGGETE I SUOI LIBRI e chiudere qui.
Superfluo dire quanto sia intensa e profonda la sua scrittura, originale e complessa la forma narrativa, intellettualmente altissime le vicende narrate. Impossibile in poche parole spiegare a chi non lo conosca già quale affascinante mondo si può dischiudere aprendo un libro, uno qualsiasi, dell’autore portoghese.
Lo abbiamo detto molte volte, prevedere l’assegnazione di un Premio Nobel per la letteratura è forse più difficile che vincere al superenalotto. Ma ci sono eccezioni anche a questa regola. Saramago è stato una di queste eccezioni. Nel 1998 si parlava quasi solo di lui, in prima fila per la vittoria non solo tra i candidati portoghesi. Dunque, un Premio Nobel annunciato, ma soprattutto atteso da una nutritissima comunità di lettori appassionati. E anche questo dovrebbe bastare per convincervi: un’Accademia di Svezia che non considera rilevanti la vicinanza al Partito comunista e le accuse di irreligiosità a fronte di una lettura della realtà originale, vasta, straordinaria. «Con tutta la sua indipendenza, Saramago si riallaccia alla tradizione in modo che, nel contesto attuale, può essere definito radicale. La sua opera si presenta come una serie di progetti che tutti insieme rappresentano un nuovo tentativo di avvicinarsi a una realtà che è difficile da afferrare», conclude la motivazione dell'Accademia, che fra le opere di Saramago cita in particolare Storia dell'assedio di Lisbona (1989), Il Vangelo secondo Gesù (1991) e Tutti i nomi (1997).
Hanno detto di lui
«Saramago è uno dei pochi scrittori epici della letteratura contemporanea; sensibilissimo all’evanescente svaporazione postmoderna della realtà, alle sue ombre, ai suoi fantasmi alla sua precarietà cartacea e capace di raccontare il mondo nella sua concreta fisicità, nell’irripetibilità delle sue creature, nel respiro della sua unità.» – Claudio Magris.
Se puoi vedere, guarda. Se puoi guardare, osserva
La sua non è stata una vita semplice. Nato in una famiglia non certo benestante, non può terminare gli studi, ma ha per contro la fortuna di avvicinarsi al mondo editoriale.
José Saramago nasce il 16 novembre 1922 nel piccolo paese di Azinhaga, in una zona a nord del fiume Tago. Di famiglia contadina, riesce solamente a diventare fabbro. Si trasferisce giovanissimo a Lisbona, una Lisbona «delle persone di pochi soldi e molto sentimento, ancora rurale delle sue abitudini e nella sua comprensione del mondo». In questa città che potremmo definire antica, ancestrale, comincia a scrivere poesie, e nel 1947 il primo romanzo Terra del peccato. Di idee comuniste (che non rinnegherà mai), lavora in un giornale impegnato, la cui chiusura lo spinge verso la letteratura e verso l’Alentejo, una regione interna del Portogallo che diventerà protagonista di Una terra chiamata Alentejo. Scritto nel 1980, viene tradotto in italiano soltanto nel 1992 (traduzione di Rita Desti, Bompiani), quando l'autore è ormai diventato famoso con molti romanzi: dal Memoriale del convento (1982) tradotto nel 1984 (traduzione di Rita Desti, Feltrinelli) all’Anno della morte di Ricardo Reis del 1984 (traduzione di Rita Desti, Feltrinelli 1985), alla Zattera di pietra del 1986 (traduzione di Rita Desti, 1988, Feltrinelli) alla Storia dell'assedio di Lisbona del 1989 tradotta l'anno successivo per Bompiani.
Saramago ha dunque vissuto tra i braccianti dell'Alentejo e con loro «si è spellato le mani». Per loro ha ricostruito la tremenda vita dei miserabili, a partire dall'affresco colossale di Memoriale del convento, dove si racconta la vita dei manovali durante la costruzione della cattedrale di Mafra, in onore alla Religione, per le speranze di un re, «sulla pelle dei poveracci», «Perché vedendo Mafra questo gigante di pietra, questa piramide portoghese, non si può fare a meno di chiedersi: "Chi ha fatto questo? Perché? Come?".»
L’impegno politico e civile e la denuncia di una società squilibrata sono costanti della sua attività.
Una vita spesa scrivendo come romanziere, drammaturgo (Che ne farò di questo libro?-Que farei com este livro?, 1980; La seconda vita di Francesco di Assisi-A segunda vita de Francisco de Assisi, 1987 e In nomine Dei, 1993), poeta (ricordiamo (Le poesie possibili-Os poemas possiveis, 1966) e saggista – tra il Portogallo e le Canarie –, con quella lucidità e coerenza che nessuno potrà mai negargli.
Negli ultimi anni guardava il mondo dal rifugio di Tias: la grande casa bianca, A Casa, dove viveva con la moglie Pilar, la figlia Violante, i cognati, gli amati cani e la biblioteca distante pochi metri, con i ventiduemila volumi che ha donato a Lanzarote. Tutto immerso nel bianco e nel verde di questo villaggio che domina dall'alto Puerto del Carmen e le sue spiagge vulcaniche, nel sole e nel silenzio in cui si sente fischiare il calima, il vento dell'isola, lontano dal suo paese, il Portogallo, che aveva scelto di abbandonare in particolare dopo la pubblicazione del Vangelo secondo Gesù Cristo (1992), oggetto di aspre critiche.
Le sue ceneri sono tornate in Portogallo, sepolte a Lisbona, sotto un ulivo di fronte alla palazzina – Casa dos Bicos – che ospita la Fondazione José Saramago.
Per conoscerlo meglio vi suggeriamo di leggere la sua autobiografia, Le piccole memorie, di cui qualche tempo fa avevamo già parlato, e Il più grande fiore del mondo.
Un uomo ha bisogno di fare la sua provvista di sogni
Nelle sue opere denuncia il conformismo, le certezze dei poteri consolidati, i dogmi religiosi e il male che può derivarne, spesso attraverso complesse metafore. Al centro dei suoi libri c'è l'uomo oppresso, vessato dal monarca o dal sacerdote, dal potere politico o dalla propria viltà. Ma l’opera di Saramago non è priva di ironia, quando trasforma il suo pessimismo in una allucinante avventura come quella della penisola iberica che si stacca dal continente e va alla deriva nella Zattera di pietra.
Abbiamo esordito ricordando come i suoi libri siano tutti da leggere, ma proviamo a ricordarne alcuni, quelli da cui partiremmo oggi per conoscere l’autore.
Memoriale del convento (1982)
È il primo romanzo compiutamente scritto in quella originale prosa «magmatica» che lo caratterizzerà successivamente. Racconta la costruzione della grande basilica voluta da Giovanni V a Mafra in segno di ringraziamento per la nascita di una erede, e costruita fra il 1713 e il 1730. II romanzo ruota intorno a tre personaggi: Baltasar, un soldato che in guerra ha perso una mano; la “strega” Blimuda, una donna cui il digiuno consente di vedere attraverso i corpi; Bartolomeu Lourenço de Gusmão, un gesuita che vuole costruire un aerostato capace di salire in cielo. Incombe su tutto l'Inquisizione con la sua ferocia e la presenza silenziosa di 400.000 uomini impegnati a costruire la cattedrale. Memoriale del convento è sia un romanzo storico, sia metaforico: mentre Giovanni V fa costruire la sua pesantissima cattedrale, gli altri protagonisti progettano l'aerostato. È stata definita una «sfida tra pesantezza, e leggerezza». È Saramago stesso a darne una lettura: «Il potere assoluto del Re si scontra con la volontà degli uomini. Lui vuole il grande monumento, loro tre vogliono volare. Il romanzo è anche una metafora della volontà. In qualche modo, in un momento così influenzato dai poteri della monarchia e della chiesa, alcuni personaggi, eretici e sovversivi vogliono inceppare la macchina del potere. Sono una “trinità” che appartiene già al futuro. Ecco un passato morto che attraverso loro torna vivo, presente».
Cecità (1995)
Probabilmente il romanzo più celebre dell’autore (ne avevamo parlato anche su Wuz), anche grazie al film omonimo del 2008 di Fernando Meirelles con Julianne Moore e Mark Ruffalo. Il titolo originale dell’opera è Ensaio sobre a Cegueira (Saggio sulla cecità).
Una cecità improvvisa colpisce un uomo fermo al semaforo. Si trasmetterà poco dopo al ladro che gli ruba l'auto, all'oculista che dovrebbe curarlo e a tutti i suoi clienti. Ben presto si trasforma in un'epidemia che contagia tutto il Paese. Il potere governativo decide di rinchiudere i «malati» in un manicomio abbandonato perché il contagio non si allarghi ulteriormente, ma fra quelle mura sorvegliate da uomini armati e determinati che si ammaleranno a loro volta, i prigionieri ripartono da zero ricreando paradossalmente una società identica a quella che hanno lasciato, la stessa che fuori sta precipitando nella loro medesima disgrazia. Il buio fisico è chiaramente la metafora del buio dell'etica nella società contemporanea. «La cecità del romanzo è la metafora della mancanza di ragione nei rapporti umani». La metafora della cecità ci porta in un mondo teoricamente paritario: tutti uguali, con le stesse possibilità. Ma l’esito è lo stesso di sempre: violenza, sopraffazione, egoismo e brutalità, nessuna convivenza diversa. «Come non essere pessimisti? La loro cecità rappresenta quella della mente, è inevitabile che si ricreino le uniche regole che si conoscono». Di contro c'è l'altra violenza, quella del potere che rinchiude i diversi. «Rinchiudere è un tentativo di frenare. Ma inutile».
Tutti i nomi (1997)
Si tratta di uno dei romanzi allegorici, che vanno dalla denuncia del Cristianesimo e i suoi peccati nel Vangelo secondo Gesù Cristo, a Cecità, in cui a essere chiamati in causa erano i modelli politici dell'Europa di fine secolo, e che ora presenta l'atto d'accusa contro la burocrazia di questo terribile Todos los Nombres. Il signor José è scritturale alla Conservatoria Generale dell'Anagrafe. È un uomo abitudinario e grigio, una figura apparentemente senza storia, senza misteri. Ma in realtà coltiva un hobby speciale: copia di nascosto le documentazioni conservate presso l'Anagrafe riguardanti personaggi famosi, dove si riportano i nomi dei genitori, gli indirizzi, le date importanti della vita... José colleziona queste informazioni e le aggiunge a ritagli di giornale, fotografie, materiale vario sulle celebrità. Questa è la sua passione. Abita in un piccolo appartamento adiacente alla Conservatoria, alla quale può accedere ogni notte aprendo una vecchia porta, per “rubare” le informazioni private delle “star”. È tuttavia sempre un po' rischiosa questa sua attività, qualcuno già sospetta... Dunque, una sera José, tormentato dalla paura di essere scoperto, raccoglie affrettatamente e per sbaglio insieme ad altri moduli l'incartamento riguardante una donna sconosciuta di trentasei anni. Da quel momento José non ha più pace: deve andare a cercarla, vederla, parlarle, sapere di più su di lei. Questa indagine diventa un'ossessione per lui, e per raggiungere il suo scopo falsifica documenti ufficiali, interroga alcune persone ingannandole sullo scopo delle domande, ruba, mente, si trasforma...
Tra gli scaffali scuri, polverosi traboccanti di carte ingiallite, nei corridoi bui in cui aleggia il particolare odore della burocrazia, l'umanità si divide in due grandi gruppi: i vivi e i morti, coloro che non hanno ancora un certificato di morte e quelli per i quali invece il certificato è stato redatto. Solo questo li identifica come appartenenti a uno dei due ingenti blocchi. Se il documento non c'è, l'uomo (o la donna) non è morto. E questa è la chiave per comprendere la storia e, forse, anche l'intera esistenza umana, al cui termine, per ricordarla, restano (ma noi non ce ne rendiamo conto finché siamo vivi) solo carte ingiallite e fotografie scolorite.
Sin troppo facile il raffronto con il Joseph K. creato da Kafka, anch'egli piccolo uomo soggiogato e spaventato dalla burocrazia, altrettanto immediato il raffronto con il labirinto di Borges e le stanze folli, confuse, intricate dei disegni di Piranesi. È l'anima fantastica, metafisica della narrativa iberica, ma è anche il Pereira di Tabucchi, e il tentativo, difficile, faticoso, quasi utopico di dare un senso alla propria esistenza.
La caverna (2000)
Lì rimasero per più di due ore il cane e il suo padrone, ciascuno con i propri pensieri, ormai senza lacrime piante dall'uno e asciugate dall'altro, chissà, forse in attesa che la rotazione del mondo rimettesse tutte le cose ai loro posti, senza dimenticarne qualcuna che fino ad ora non è ancora riuscita a trovare il proprio
Non un pessimismo universale pervade questo romanzo, con un finale aperto alla speranza, ma una critica decisa e diretta alla globalizzazione, all'omologazione, alla chiusura intellettuale che porta alla discriminazione, all'emarginazione, all'egoistica grettezza.
È un'opera dall'andamento sinuoso e rallentato, che svolge la storia tra dialoghi e descrizioni, tra pensieri e azioni. I protagonisti si presentano con discrezione al lettore, senza fretta: ci sarà molto tempo per tratteggiarli, per approfondire la conoscenza del loro animo con quella scrittura fluida e armoniosa, ma complessa, che sempre più si sviluppa concentricamente.
Un furgone viaggia ai margini della città. Emarginazione, miseria, degrado accompagnano lungo la strada i due passeggeri del piccolo camion: Cipriano Algor, il suocero, e Marçal Gacho, il genero. Parlano poco, temono di essere assaliti da una banda di disperati intenzionati a rubare la merce che stanno trasportando. È un carico modesto, ma per loro prezioso. La Fornace Algor produce vasellame da cucina che viene venduto al Centro, una struttura “privilegiata” autosufficiente che si trova all'interno della città. Il Centro è un luogo controllato, organizzato e isolato, in cui abitano, lavorano, fanno gli acquisti necessari, si divertono e muoiono molte persone; Marçal Gacho vi svolge l'attività di guardiano. Vive lì molti giorni al mese, ma ogni tanto torna in campagna dalla moglie e dal suocero che nel frattempo mandano avanti il lavoro della Fornace. Cipriano non vuole avere rapporti con il Centro se non di tipo commerciale. Se la figlia si trasferirà lì, lui non la seguirà. Quel mattino Cipriano ancora non lo sa ma il suo destino verrà cambiato da un fatto nuovo e grave. Pronto a scaricare come sempre la merce nel magazzino, viene avvisato che la sua produzione ha subito un arresto delle vendite e che di conseguenza il Centro (spietatamente legato alle indagini di mercato) sospenderà i suoi rifornimenti. Ancora mezzo carico potrà essere consegnato, ma sarà l'ultimo fino a nuovo ordine. Per Cipriano questo fulmine a ciel sereno è l'inizio di una ricerca fuori e dentro di sé che lo porterà a fare scelte fondamentali. Come intraprendere una nuova produzione (passando dalle stoviglie alle statuette) per tentare di non chiudere definitivamente la Fornace.
Figura positiva del romanzo è il cane Trovato, un essere sensibile e intelligente, dotato di quell'umanità assente in tanti esseri umani. Saramago descrive intensamente anche i pensieri di questo cane eccezionale che si intersecano con quelli dei padroni in un miscuglio di incomprensioni e di tentativi di comunicazione, più efficaci e più soddisfacenti di quelli con molti altri compagni di strada. E quando si scoprirà che nel Centro non sono ammessi animali...
Saggio sulla lucidità (2004)
La storia, avvincente come un noir, assorbe e trascina con sé, lucidamente. Alcuni critici al momento dell’uscita del romanzo (fra tutti ricordiamo Bruno Arpaia sul “Domenicale” del Sole 24 Ore) la considerarono opera «al di sotto delle attese». Ma altri invece videro in Saggio sulla lucidità un testo superiore ad alcuni tra gli ultimi romanzi di Saramago, sicuramente all’altezza di Cecità, cui tra l’altro si riferisce, o de La caverna. La difficoltà, come sempre, sta nel parlarne. Questo è un libro che necessita di un periodo di riflessione prima di poterlo presentare. Molti romanzi di Saramago potrebbero essere definiti “politici” (e in qualche modo questa sua visione della realtà è stata in gran parte la motivazione del premio Nobel), ma Saggio sulla lucidità lo è in misura ancora maggiore. Un’analisi impietosa, dura, caustica e pessimista del sistema delle democrazie occidentali, una denuncia critica e tristemente ironica delle armi che la democrazia usa per difendere sé stessa, una teorizzazione della possibile autonomia “anarchica” di una città che non porta affatto allo sfacelo.
Le intermittenze della morte (2005)
La morte è logica, è naturale: ci appartiene. Viviamo per morire e non vivremmo se non morissimo. L’eternità paradossalmente sarebbe infinitamente peggiore
Potrebbe forse definirsi un romanzo utopico-filosofico, anche se l’autore probabilmente non sarebbe d’accordo. È un viaggio immaginario, alla maniera di Swift, in cui un inesistente Gulliver, la voce narrante, Saramago stesso, racconta da testimone privilegiato un luogo senza tempo e senza coordinate geografiche in cui accade un evento straordinario: l’improvvisa latitanza della morte. Un’utopia che si trasforma in dramma e che, attraverso i vari rivoli della narrazione, propone tragedie singole e collettive legate a un unico spaventoso tema: l’immortalità. Non è dunque un libro sulla morte, ma sulla vita perché non esisterebbe l’una senza l’altra, perché ogni vita terrena è destinata a una fine, ne ha bisogno per la sua stessa esistenza. Un romanzo fluido e raffinato, una analisi profonda e talora sarcastica della nostra condizione sociale, politica e umana, uscendo dal particolare per entrare nell’universale.
Una riflessione che è anche un commiato, un testamento etico e filosofico fondamentale.
Gli altri approfondimenti
Hai domande, dubbi, proposte? Vuoi uno spiegone? Scrivi alla redazione!
Conosci l'autore
Per poter aggiungere un prodotto al carrello devi essere loggato con un profilo Feltrinelli.
Per poter aggiungere un prodotto alla lista dei desideri devi essere loggato con un profilo Feltrinelli.
Il Prodotto è stato aggiunto al carrello correttamente
Il Prodotto è stato aggiunto alla WishList correttamente