Il sismografo

L'enigma del metaverso e la cultura del futuro

Se Elon Musk dice che fra non molto andrà con i suoi razzi su Marte, o Jeff Bezos che metterà in cielo una stazione orbitale, non è necessario credergli: potrà accadere, magari non nei tempi annunciati al mondo (e agli azionisti) oppure non accadere per niente; la questione interessa, oltre che le Borse, gli appassionati di viaggi spaziali e frange di varie altre tecno categorie. Se invece Mark Zuckeberg cambia nome alla holding che controlla Facebook, Instagram, Whatsapp Oculus, e la battezza Meta - che sta per metaverso, «Uno spazio digitale in tre dimensioni, globale, immersivo e condiviso» - la cosa inizia a farsi interessante (e preoccupante), perché il salto nella realtà virtuale di massa non è affatto chiaro in cosa consista e neppure che conseguenze possa avere.

Per chi si fosse perso le prime battute della faccenda, "metaverso" è il nome con il quale lo scrittore di fantascienza Neal Stephenson immaginava in Snow Crash, nel lontano 1992 pre internet, un mondo virtuale postumano dove gli individui esistevano in quanto avatar in un cybermondo tridimensionale. Il progetto di Zuckerberg, più fattivamente, parte da tecnologie esistenti in rapida evoluzione, al crocevia tra AR (Augmented Reality, realtà aumentata), VR (Virtual Reality, realtà virtuale) e AI, Intelligenza Artificiale, il cui flusso di algoritmi di eccezionale efficacia e intensità presuppone il salto di internet in una nuova epoca. Facebook diventerà metaverso nei cinque anni auspicati? Non è che si tratta di una mossa per distrarre la platea mondiale dalla lunga serie di cacche sociopolitiche che Zuckerberg ha calpestato negli ultimi anni? O per difendere il monopolio che ha dei social? La larghezza di banda e i megaserver di internet saranno in grado di sostenere quell'enorme flusso di dati necessari alla VR via internet? Vai a sapere.

Durante il lockdown, riporta l'autorevole rivista Slate, sono stati venduti negli Stati Uniti device VR per 3 miliardi di dollari; si tratta, prevalentemente, di quegli occhialoni che, insieme alle manopole,  sono diventati icona della tecnologia: un device non economico ma abbordabile (tra i 200 e i 300 dollari), che per adesso permette di immergersi in particolari videogame ma anche, per esempio, di allestire un ufficio virtuale e lavorare come se si fosse Tom Cruise in Minority Report: ha provato recentemente a farlo per una settimana un redattore del Post, tra il sorpreso e il dubbioso.

Il passo successivo, per il patron di Facebook, è quello di trasformare le chat nell'incontro in 3D dei vari avatar che vi partecipano, muoversi in ambienti domestici che sono solo in parte reali, fare shopping virtuale in un negozio di moda, un supermercato, una libreria, socializzare con un incontro di boxe (vedremo con quali esiti) o con un giro di danza e, ovviamente, imergersi nei videogiochi partecipativi.  

Sia come sia, il metaverso, per come lo si può immaginare oggi come prodotto di consumo, è soprattutto una formidabile macchina di seduzione profonda e di un'inedita alterazione della percezione di sé, dell'altro e del mondo. È già messo in conto che il Metaverso non sarà accessibile a tutti, per questioni di disponibilità economica, tecnologia, banda larga. Eppure, se lo fosse per solo il 10% dei tre miliardi di account Facebook attuali, vorrebbe dire almeno 300 milioni, l'equivalente di tutta la popolazione attiva d'Europa. Ovvero un formidabile marketplace globale di fascia alta che si aggiunge a quello ordinario, dal quale oggi Facebook ha utili netti, in commesse pubblicitarie, che sono quasi il triplo di quelli di Amazon. Insomma, per parafrasare il primo ministro Draghi, "i soldi ci sono".

Certamente non dobbiamo farci abbagliare da annunci fatti senz'altro anche per ripulire un'immagine un po' compromessa e blandire gli azionisti di Meta, ma non si può trascurare che anche Google (con la nuova generazione dei suoi occhiali) e Apple (il suo visore 8k è previsto per il 2022) sono da tempo, e con ingenti investimenti, su una loro idea di metaverso.
E se la next big thing rischiasse di essere molto al di sotto delle promesse? È possibile, se la vediamo solo con le caratteristiche del sogno prometeico dei potentati tecnologici californiani, ma diventa immediatamente un futuro concreto se guardiamo all'aggressivo marketing dei social che ha nel proprio mirino una specifica categoria. Visto che l'investimento in realtà virtuale è su tempi relativamente lunghi conviene pensare ai consumatori dell'immediato domani, dunque a bambini e ragazzi i quali sono più aperti alle tecnologie e, va da sé, più facilmente plasmabili, manipolabili, pronti per diventare il successo di qualsiasi cosa possa finire nel mondo parallelo.

A partire dai videogame partecipativi, che di fatto sono già un metaverso, perché ne hanno tutte le caratteristiche: un mondo parallelo dove non valgono le regole di quello reale, uno o più avatar modellati su cose si vuole essere o apparire, chat per stringere amicizie, alleanze e molto più, come nel caso di Fornite, il videogioco più popolare degli ultimi anni che usato come un social network. Manca solo la terza dimensione, il 3D ai videogiochi partecipativi, perché di certo non mancano gli users, distribuiti ormai in ogni fascia d'età, e quasi in pareggio nella presenza maschile/femminile. I videogame hanno un giro d'affari enorme, 178 miliardi di dollari previsti nel 2021, superiore a quello dell'editoria libraria globale; il trend di crescita  ha ampiamente superato le previsioni e fra una manciata d'anni l'industria videoludica varrà come tutte le industrie culturali, musica, cinema e televisione compresa.

Proprio sui videogiochi in ambiente virtuale si stanno concentrando decine di ricerche condotte dai principali centri di ricerca nelle neuroscienze cognitive (Università di Austin, MIT, Stanford, UCLA di Los Angeles e molte altre sparse per il mondo). I risultati non sono definitivi, ma già i primi risultati bastano per lanciare un serissimo segnale d'allarme. La VR, al meglio delle sue possibilità narrative e tecnologiche attuali, è vissuto dal nostro cervello e dal nostro corpo in modo quasi indistinguibile da un'esperienza reale. Ci si sente facilmente vulnerabili, o onnipotenti; le sensazioni sono memorizzate come reali, incassare un pugno virtuale viene recepito da mente e corpo come un pugno reale, che innesca reazioni di attacco o di fuga come in una vera aggressione.

Al contempo, si vive una spersonalizzazione del proprio corpo, un'alterazione dei segnali extravisivi che provengono dall'ambiente, una incarnazione delle esperienze virtuali che possono portare a fobie, incubi, disturbi del sonno, o peggio. D'altro canto, la capacità della realtà virtuale di intervenire sulla coscienza e su alcune importanti funzioni cognitive può essere usato  come un'efficace cura dei disturbi post traumatici, per sviluppare empatia e stati meditativi e forse anche per stimolare la plasticità del cervello verso funzioni perse o mancanti. I videogame, però, non sono certo pensati in senso terapeutico e anzi, chi passa indenne dalle possibili trappole dei mondi virtuali, in quei mondi ci vuole rimanere per periodi sempre più lunghi. Insomma, una forma di addiction della quale non si conoscono ancora le conseguenze. La realtà virtuale è drasticamente sconsigliata in sessioni che superano i venti minuti e comunque mai per bambini al di sotto dei 10-13 anni.

Ma si può realisticamente ipotizzare un controllo effettivo (e da parte di chi?) su bambini e ragazzi nel momento che l'overdose di esposizione ai normali schermi di smartphone e tablet è già stata stigmatizzata come fortemente negativa dalla scienza senza che il messaggio sia entrato operativamente nelle pratiche dei genitori? La prima a perderci nella tenzone con cartoni animati, serie tv e videogame è la lettura profonda, quella sì - dice Maryanne Wolf, scienziata cognitiva specializzata in lettura e dislessia - in grado di stimolare l'immaginazione e le abilità cognitive, contribuire alla formazione di una propria scala di valori, preparare ragazzi ed adulti ad una virtuosa negoziazione con la realtà, quella vera.

I device per la realtà virtuale costano solo qualche centinaio di dollari, e non c'è dubbio che per lanciare un prodotto molti software, giochi e non, si adatteranno velocemente alle esigenze del mercato. Dunque una qualche forma imminente di metaverso dovremmo già aspettarcela, indipendentemente dai progetti di Zuckerberg, e niente potrà fermarla. Gli anticorpi verso un uso malevolo della realtà virtuale sono pittosto nel software della società civile, nella scuola, nella scala di valori trasmessa da famiglie e istituzioni; i varchi aperti al peggio che avanza sono da cercare nei  numerosi contesti dove lo sport è diventato un modello di competizione esasperata, lo stordimento narcisistico prodotto dai social un valore esistenziale e identitario, l'ipnosi da overdose di schermi una droga intossicante soprattutto per le giovani menti in formazione. Tutto questo, purtroppo, a scapito delle enormi e benefiche potenzialità della realtà virtuale nel campo della conoscenza, dell'informazione, dell'istruzione e della cura e supporto di varie disabilità cognitive e  in nuove forme di opere d'arte e di cinema che la realtà aumentata e/o virtuale è già in grado di fornire.

Netflix ha da poco iniziato a distribuire videogiochi, alcuni dei quali legati a serie tv come Strange Days: è proprio nelle relazioni tra videogame, piattaforme di streaming, serie tv, social media e tecnologia che sta prendendo forma tutto il meglio e tutto il peggio della cultura di massa di domani. Chiamiamola, se vogliamo, metaverso.

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