Nei mesi scorsi Donzelli Editore ha opportunamente mandato in libreria una nuova ristampa (arricchita da una prefazione per l’edizione del trentennale a firma di Nadia Urbinati) di Destra e sinistra di Norberto Bobbio.
Un libro, osserva Nadia Urbinati nella sua prefazione che, riletto oggi trent’anni dopo la sua prima edizione consente di:
prendere visione di una mappa del nostro presente, perché ci parla delle persistenti resistenze contro l’eguaglianza, dell’esaltazione dell’individualismo e della meritocrazia.
Non solo: consente anche di tornare a riflettere su quel tema cogliendone le trasformazioni nel tempo.
Se a lungo Bobbio aveva contestato alla sinistra una visione dura dell’eguaglianza in nome di una subordinazione, o comunque di una minore rilevanza, della libertà (questo il senso del suo saggio Della libertà dei moderni comparata a quella dei posteri, scritto nel 1954 e poi confluito l’anno successivo nella prima edizione del suo Politica e cultura, Einaudi, 1955) quaranta anni dopo, quella connessione libertà/eguaglianza, si ripresentava in un tempo in cui la libertà tendeva ad essere propagandata sottolineando i toni anti-egualitari.
Il trionfo o, comunque, l’egemonia oggi di questa versione, dove l’eguaglianza sembra contare sempre meno, allude al fatto che ricordare Norberto Bobbio nel ventennale della sua scomparsa, implica ripensare complessivamente alla sua parabola: da voce autorevole e imprescindibile nella discussione pubblica, a dimenticato.
Forse anche per questo è bene partire dalla fine. Ovvero da noi, qui.
Nel 2022 Michelangelo Bovero pubblica sulla rivista Cosmopolis un saggio amaro (ma a mio avviso molto realistico) dal titolo Dal fascismo alla democrazia, e ritorno. L’eredità dissipata del pensiero di Norberto Bobbio su ciò che rimane oggi di Norberto Bobbio.
È un testo che probabilmente tiene presente non solo ciò che è ancora vivo della riflessione di Bobbio, ma soprattutto dei temi di cui ci farebbe piacere liberarsi.
Bovero sottolinea un aspetto che la dimensione dello studioso (e, dunque, di chi si presume sia informato dei fatti) non coincida né sia interscambiabile con quella dell’intellettuale. Perché scrive:
Lo studioso cerca di comprendere, di interpretare, di spiegare il mondo (e le idee, le idee sul mondo e il mondo delle idee); l’intellettuale giudica, valuta, cerca di influenzare atteggiamenti e comportamenti. Dallo studioso riceviamo insegnamenti, che incidono sulla conoscenza; dall’intellettuale riceviamo messaggi, che influiscono sull’azione. È possibile che da uno studioso provengano molti insegnamenti, pochi o nessun messaggio: cioè, appunto, che un valente studioso non sia anche un efficace intellettuale. Più difficile da accettare ci appare l’inverso, che da un intellettuale provengano molti messaggi, pochi o nessun insegnamento: cioè, che un intellettuale influente non sia anche un bravo studioso.
Per poi concludere:
Dunque, se un intellettuale non è anche uno studioso attendibile, è bene diffidare dei suoi messaggi.
Un tema su cui Bobbio aveva insistito nel suo Profilo ideologico del Novecento italiano, ma in cui soprattutto ricorda come Luigi Einaudi, e con lui Gaetano Salvemini, sempre dimenticati o comunque ricordati con fastidio, siano unici eredi di una forma mentis alla Carlo Cattaneo (una figura culturale e politica che non ha mai dimenticato) che rappresentano:
col loro empirismo, con la loro passione per i ragiona¬menti ben fatti e appoggiati su dati, con la loro mania di parlar per cifre e tariffe, di prendere le mosse da un fatterello piuttosto che da una citazione, una corrente di pen¬siero che non ha mai messo radici nel nostro Paese e che appena tenta di uscire allo scoperto viene subito azzannata dalle tigri e dai loro amici.
Per poi concludere, amaramente, ma non esageratamente, che:
i riformatori hanno condotto sempre vita stentata in un paese troppo vecchio e troppo in ritardo come il nostro per aver la pazienza di aspettare: col risultato che, invece di riforme tempestive, abbiamo sempre trovato sulla nostra strada rivoluzioni brevi e controriforme lunghe.
Da cui discende che pensare a una diversa e possibile storia d’Italia, implichi capire perché quella storia abbia seguito quel corso.
Insiste a ragione Bovero ricordando come quel fare i conti da intellettuale, ovvero da studioso appassionato, passionale e, spesso, dolente, sia anche la formulazione di un lessico della politica e nei confronti della politica che solo apparentemente si presenta come freddo, ma che in realtà va diretto al confronto e allo scontro sulle posizioni di comodo; sulla zona di confort in cui le insoddisfazioni nei confronti della politica spesso si nascondevano nell’antipolitica che ha innervato profondamente la mentalità diffusa nel tempo lungo della storia italiana.
Il tema è il successo del revisionismo storico che spesso in Italia è stato assunto come dimostrazione soddisfatta della non servitù alle ideologie, e che a Bobbio sembrava profondamente falso perché espressione di una lunga storia della tradizione italiana e che in altre vesti si presenta come aggiornata versione virtuosa di Franza o Spagna, purché se magna!
Scrive nelle pagine che intitola A me stesso e che accompagnano la sua raccolta di scritti dedicata alla vecchiaia De senectute, Einaudi 2020, che
In questi ultimi anni di revisionismo storico mi accade di constatare a mia volta con amarezza che il rifiuto dell’antifascismo in nome dell’anticomunismo ha finito spesso di condurre a un’altra forma di equidistanza che io considero abominevole: tra fascismo e antifascismo. Questa equidistanza […] preclude alle giovani generazioni di cogliere la differenza tra uno stato di polizia e uno stato di diritto, tra una dittatura anche se meno feroce di quella nazista e una democrazia [anche se] zoppa come quella della prima repubblica (che nonostante tutto continua a zoppicare), e di rendersi conto che il fascismo, la prima dittatura imposta nel cuore d’Europa dopo la prima guerra mondiale, responsabile, se pure sottomessa al suo potente alleato, di avere scatenato la seconda guerra mondiale, terminata in una tragica sconfitta, è stata un’onta nella storia di un paese che era da tempo nel numero delle nazioni civili. Di quest’onta ci libereremo soltanto se riusciremo a renderci conto sino in fondo del prezzo che il paese ha dovuto pagare per la prepotenza impunita di pochi e l’obbedienza, se pure coatta e non sempre ben sopportata, di molti”.
Il che non voleva dire arroccarsi sul consolidato e rifiutare di ripensare criticamente anche a un passato di cui si era stati sia partecipi che difensori. Norberto Bobbio era sufficientemente adulto per non cadere innamorato di se stesso, o non proporre un ritratto esemplare di sé come con la prova che non si poteva far meglio.
Pochi anni prima di queste righe, nel dicembre 1992, in un’intervista a firma di Alberto Pupazzi, uscita su La Stampa, giornale a cui ha collaborato per una vita, aveva ricordato che la funzione dell’intellettuale è di richiamare l’attenzione su ciò che va continuamente riveduto.
In quella logica stava un lunga fedeltà a una pratica che aveva inaugurato già alla fine degli anni ‘40, mezzo secolo prima, e che aveva condensato nel suo Politica e cultura, il volume che pubblica nel 1955 e che segna una tappa fondamentale nella storia del confronto politico e culturale dell’Italia repubblicana.
Giustamente Franco Sbarberi, filosofo della politica che di quel volume ha curato nel 2005 una nuova edizione, ha sottolineato come proprio in quel lontano testo del 1955 vi siano due nuclei essenziali della riflessione di Bobbio, che egli introduce per la prima volta nel dibattito pubblico in Italia. Da una parte:
l’abbozzo di una teoria della democrazia, intesa a un temo come complesso di regole per garantire le libertà fondamentali degli individui e come diritto delle masse popolari a promuovere dal basso le forme dello stato nuovo.
dall'altra:
una concezione dell’intellettuale come coscienza critica dele forme di esercizio del potere, come promotore di dialogo nella ricerca aperta della verità e come mediatore selettivo dei valori della sinistra.
Trent’anni fa, riflettendo sul cinquantenario della rivista Il Ponte, periodico mensile a cui Bobbio non ha mai fatto mancare la sua collaborazione, scriveva in apertura del numero che celebrava i cinquant’anni della rivista (gennaio 1994) che il disegno che dal primo numero e ancora oggi fa da logo della rivista era giusto mantenerlo.
Il disegno - ricordo - raffigura un ponte diroccato, vittima della guerra, una sola arcata, crollata, distrutta, sugli estremi dei pilastri e i pochi mattoni dell’arco rimasti in piedi, è posato un asse di legno, e un omino con un badile sulle spalle che procede da una sponda all’altra su quella precaria passerella.
Allora [nel 1945] – scrive Bobbio - quel passante sapeva da dove era partito e dove bisognava andare […]. Sull'altra sponda, da raggiungere faticosamente, c'era un mondo di pace, nonostante le vestigia della guerra, dove ci si aspettava che avremmo trovato più libertà e forse anche più giustizia […]. Ora lo sappiamo un po' meno. Siamo sempre sullo stesso ponte, diventato, se mai, col passar del tempo, più insicuro. Non solo non sappiamo se riusciremo davvero a passare dall'altra parte. Ma non sappiamo neppure che cosa troveremo qualora riuscissimo a varcarlo.
Ma questo non impedisce - come al Sisifo di Albert Camus che guarda il masso giù nello sprofondo dove è precipitato e decide di tornare nel fondo dell’antro e riprovare - che si riprenda a fare. per cui conclude, nel gennaio 1994:
Intanto continueremo a restare su quel ponticello, dal quale non ci siamo lasciati buttar giù in tutti questi anni, anche se non siamo mai stati dalla parte dei vincitori. E il non saper con sicurezza che cosa ci sarà al di là, come invece sapevamo allora, non è una buona ragione per rinunciare a cercare ancora una volta di raggiungere la riva.
Così continui ad essere anche per noi.
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