Da quanto tormento e da quanta vitalità furono toccati l’ultimo decennio dell’Ottocento e, soprattutto, il primo del Novecento lo dice, con uno scatto di pudica audacia, la dedica di Clemente Rebora in testa ai suoi Frammenti lirici pubblicati nel 1913: Ai primi dieci del secolo.
Si avverte la percezione di un accadere concitato e fremente.
Un accadere che solo dopo lo sgomento della Grande Guerra sarà possibile comprendere con uno sguardo retrospettivo, più agghiacciato che consapevole.
C’è una borghesia nuova, c’è una diffusa coscienza sociale, ci sono conquiste scientifiche che rovesciano nell’economia una nuova forza espansiva, e c’è infine un ceto medio di professionisti e di funzionari che assicura al Paese solidità e ambizione. D’Annunzio celebra l’estate del Superuomo nietzschiano, il mite Pascoli pensa alla guerra coloniale in Libia come alla rinascita della Grande Proletaria, il traforo del Sempione apre l’Italia all’Europa e Marinetti chiude il suo Manifesto dei pittori futuristi con la “radiosa magnificenza del futuro”.
Questa edizione, magistralmente annotata e introdotta da uno dei maggiori studiosi italiani, Giorgio Barberi Squarotti, presenta entrambe le raccolte edite da Gozzano e una scelta amplissima delle poesie rimaste inedite, a partire dall’incompiuto poemetto Le farfalle.
Così questi famosi primi dieci anni del secolo.
Gli stessi in cui viene maturando la poesia di Guido Gustavo Gozzano, la più porosa, la più eccentrica, la più affabile, la più equivoca di tutto il Novecento.
Dandy dannunziano, sedotto dalla mondanità – e sarebbe infine sacrosanto riconoscere a Torino una sua non superficiale inclinazione alle estenuate acrobazie decadenti del volgere del secolo – il giovane Gozzano schiva la carriera di giurista e, apparentemente (e ironicamente) incollato alla sfibrata vertigine di un romanticismo che ancora spira dal “1850”, canta, come è noto, le buone cose di pessimo gusto; ma soprattutto si strappa al gusto pessimo della nuova retorica borghese, sia essa quella ribelle della velocità, quella “positiva” della scienza, o quella della volgarizzazione retorica di una scalmanata supremazia.
Le più belle fiabe di Guido Gozzano e Luigi Capuana riscritte per il teatro da Andrea Carabelli e illustrate da Maria Pia Grifone. Sono racconti di principi e principesse di eroi e di mostri, di grandi ideali e di bellezze sconfinate pensate come spunti artistici che permettano anche alla fantasia dei lettori di esprimersi.
Il mondo, sintetizzato in quei dieci anni colti al lampo di magnesio della dedica di Clemente Rebora, non è estraneo a Guido, anzi si può ben dire che lo illuda, se non addirittura che lo seduca (c’è persino il cinema nel suo orizzonte e sappiamo di una sceneggiatura sulla figura di San Francesco); ma è d’altro canto vero che, in un’agghiacciante adesione al proprio declinare, in una ricognizione quasi millimetrica di una progressiva sottrazione all’esistenza, la sua opera lo consegna a un osservatorio di confine, che produce una impressionante lucidità di visione.
Una lucidità appena mascherata da un consapevolissimo downgrading, accompagnato da figure che ne assicurano, narrativamente, l’umbratile consistenza.
E noi crediamo alla sua Felicita, alla sua “cattiva signorina”, a Totò Merumeni, a Carlotta, alle cameriste, al “monello giocondo”, a tutti i protagonisti della sua commedia umana.
Ripubblicata la corrispondenza di inizio '900 fra i due giovani poeti andata perduta. Dalle questioni letterarie al corteggiamento, fra di loro c'è un sentimento tormentato e faticoso.
Ho detto che crediamo ai suoi personaggi perché di fatto Guido Gozzano è stato un poeta fortissimamente convinto dell’ordito drammaturgico dei suoi versi e della funzione che vi svolge il personaggio del poeta, anzi di guidogozzano, il “vizioso fanciullo viziato”. È di quest’ultimo che raccontano l’ambiguità, la malattia, la strategia esistenziale, i fantasmi, la crudeltà.
Edoardo Sanguineti raccomandava in un suo celebre saggio una lettura degli epistolari.
Aveva ragione poiché, al di là della banalità filologica dei riscontri, è lì che percepiamo il complesso gioco fra verità e ribaltamento ironico, fra trasparenze romantiche e cinismo beffardo, quasi puskiniano (da una parte il ruolo ben interpretato dell’interlocutore sublime con la maliarda Amalia Guglielminetti, dall’altra l’accorata confidenza, non priva di accenti grotteschi e licenziosi, con l’amico Carlo Vallini).
“Quello che fingo d’essere e non sono!”, ovvero la “dichiarazione” che chiude La signorina Felicita, fa precipitare tutto il movimento sentimentale che irraggia dal feroce corteggiamento della fanciulla “priva di lusinghe” dentro una confessione esclamativa, violenta, che ustiona e contraddice la stessa idea di poesia.
Nessuno come Gozzano ha saputo sedurre e cancellare le tracce della seduzione, stare fra il racconto e la sua negazione, fra gli entusiasmi globali del liberty e il miraggio della libertà, alla fine dei primi dieci anni del secolo, quando tutto pareva possibile.
Di
| Rizzoli, 1977Di
| Bompiani, 2008Di
| Mondadori, 1983Di
| Quodlibet, 2019Di
| Interno Poesia Editore, 2020Di
| Einaudi, 2016Di
| Edizioni di Storia e Letteratura, 2023Gli altri approfondimenti
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