Gli amori non si perdono mai, sembra dirci Vivian Lamarque (nata a Tesero, Trento, nel 1946, e da tanti anni a Milano). O meglio, proprio in quanto perduti restano per sempre con noi.
La poetessa è in viaggio, su un aereo: vede qualcuno vicino, proprio dietro di lei. Lo chiameremo Ics.
È infatti un’incognita, un dato che non si trova. Ma sembra lui, proprio lui, in tutto uguale a come se lo ricorda. Perché gli amori, oltre a splendere nel mondo in piena luce, oltre a farci compagnia nei giorni chiari della vita vera, stanno anche sempre accesi nella nostra interna fantasia, che ricorda e rivuole tutto. Sì, i nostri amori sono come una somma, un totale, da cui non ne deve mancare nemmeno uno. Se manca quello, se non c’è quel profilo, quel volto, allora non c’è amore possibile nel mondo.
Così, in un delirio innocuo, in una piccola fanciullesca ossessione, la poetessa proietta fuori di sé il suo intimo vedere l’amato. Eccolo che rispunta in mezzo ad un viaggio, eccolo che si fa vedere o si lascia, almeno, intravedere. E allora la poetessa lo va a cercare: sulla scaletta, nel tunnel, nella navetta verso l’aeroporto, al ritiro bagagli. Lui non c’è, ma lascia qualche indizio di sé, come a dire che c’è, sì, c’è ancora, ma non si può vedere, non si trova davvero.
In fondo, non l’ha chiamato Ics la nostra poetessa?
Lamarque muove i suoi passi con una felice varietà di soluzioni espressive, passando da componimenti fittamente prosastici ad altri più sottilmente e sempre incisivamente scanditi, conservando gli accenti di raffinato tono colloquiale in cui si manifesta un lirico senso di pacata e umanissima saggezza.
Ecco infine il suo nome. Nominare, chiamare con un vero nome è come avere l’amato con sé. E nel cartello di un attendipersone ecco proprio il nome di colui che sembrava dimenticato, ma che poi è tornato, ricomparso e di nuovo sparito, lasciando di sé il cartello segnaletico del suo nome.
Se c’è il nome, pensa la poetessa, dovrà tornare anche lui, non potrà lasciar deserto il proprio nome, render vana l’attesa di chi lo aspetta dietro a quel cartello. Ma lui non torna. Così anche chi l’aspettava se ne va, scoraggiato. E la poetessa dietro, a interrogarlo, a chiedergli di lasciarle a lei il suo cartello, ché lei continuerà a provare, ad attendere quell’amato che non vuole sbucare, che non vuol comparire da nessuna parte. Ma guarda e riguarda, il nome non è proprio quello: sì, certo, gli assomiglia, ma non è proprio lo stesso. È un nome quasi uguale a quello dell’amato.
E forse anche quel volto, che la poetessa ha visto in aereo, era quasi uguale a quello tanto caro, perduto, che non si era visto più. Allora forse è così: per quel disguido, per quella piccola differenza, l’amato è di nuovo perduto. Sì, ma è anche presente: in ogni aspetto del mondo che gli somiglia torna indietro l’amato, torna da noi, si lascia per un momento incontrare.
Prima di dileguare.
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