Il verso giusto

Lamento della vedova a primavera di William Carlos Williams

Immagine tratta dal libro "Poesía reunida, di William Carlos Williams, Lumen 2017"

Immagine tratta dal libro "Poesía reunida, di William Carlos Williams, Lumen 2017"

Lamento della vedova a primavera

Il dolore è il mio giardino
dove l’erba nuova
divampa come è divampata
spesso prima d’ora ma non
con il fuoco freddo
che mi si serra addosso quest’anno.
Trentacinque anni
ho vissuto con mio marito.
Il pruno è bianco oggi,
con masse di fiori.
Masse di fiori
gravano sui rami del ciliegio
e tingono alcuni cespugli
di giallo altri di rosso
ma la pena nel cuore
è più forte di loro
perché se pure sono stati la mia gioia
un tempo, oggi rivolgo loro uno sguardo
che subito distolgo, dimenticando.
Oggi mio figlio mi ha detto
che nei prati,
al limitare del bosco fitto
in lontananza, ha visto
alberi di fiori bianchi.
Sento che mi piacerebbe
recarmi là
e cadere fra quei fiori
e affondare nella palude che costeggiano.

(William Carlos Williams, A un discepolo solitario, a cura di Luigi Sampietro, traduzione di Damiano Abeni, Bompiani 2023)

C’è una definizione di poetica di William Carlos Williams, contenuta in Una specie di canzone (dalla raccolta Il cuneo, del 1944), che è divenuta l’emblema della sua intera poesia, stendendosi sulla sua produzione in versi anche precedente (mentre i cinque libri del poema Paterson vi rientrano pienamente, essendo successivi). Dice così: «[…] (No ideas / but in things) […]», cioè «[…] (Niente idee / se non nelle cose) […]».

Come ogni definizione efficace (si pensi per la nostra tradizione alla formula della poesia onesta di Saba), è senza dubbio parziale, ma indicativa. Mette cioè in chiaro un obiettivo del poeta: in questo caso stringere, fissare le cose più che le astrazioni, le idee.

È stata davvero tutta così la sua poesia? Sì, ma con complicazioni e aggiunte che meriterebbero un discorso a parte. Comunque sì, senz’altro: il punto di mira è stato questo per i lunghi anni della sua carriera di medico-poeta (Williams nacque a Rutherford, negli Stati Uniti, nel 1883 e lì morì nel 1963).

Prendiamo allora una poesia che sembra fornire un’esemplificazione, una conferma, sia pure in anticipo sulla sua formulazione, a quella poetica.

È tratta dal libro Vino amaro, del 1921, e si intitola, didascalicamente, così: The Widow’s Lament in Springtime, cioè Lamento della vedova a primavera.

La poesia è in prima persona: quindi come in una parlata, in un lampante monologo teatrale, il personaggio indicato dal titolo-didascalia si esprime all’interno delle coordinate stagionali suggerite. La vedova nel tempo del rifiorire si aggira in un giardino di dolore. Sente che le radici della propria pena sono più forti e più tenaci di qualunque efflorescenza. Quei fiori nuovi, lattescenti, biancastri, per quanto evocati dal figlio, vale a dire dalla vita che continua, non possono consolarla. Ella vorrebbe invece, e lo dice alla fine del testo, cadere fra di essi, affondare nella palude che costeggiano.

Davvero nel testo non c’è commento, né glossa né idea del dolore, ma pura espressione di esso tramite le immagini. Il lamento non ha controdeduzioni né sbocchi, né trova esplicazioni morali, giustificazioni, inviti a guardare oltre. L’erba che divampa nel giardino doloroso è raggelata come non mai, mette un fuoco freddo addosso alla donna, per colpa dei trentacinque anni vissuti col marito ora perduto. Non si dice altro di lui, né lo si rammemora o rimpiange: è un lamento che nella sua istantaneità è anche antico, sempre attuale nella sua intemporalità. Si contrappongono due forze nel mondo: il fiorire nuovo e il morire, la primavera e il volersi opporre a quella luce, a quella novità. Perché una vita non c’è più, né potrà più tornare.

Il poeta parla come la donna, la donna impasta della sua la voce del poeta. Colui che scrive fa posto al dolore di lei, chiunque sia, lo lascia trapelare e passare per i suoi organi vocali: una cosa, una cosa al mondo, che deve essere detta.

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