Ho avuto paura in tutti i modi, in tutti i minuti che ho passato su questo pianeta, su questo mostruoso, bello e terribile pianeta, con tutte le sue strane creature e le sue acque abbondanti, e tutta la sua gente umana. Ho paura anche adesso
Queste le parole di Thomas Jerome Newton, protagonista de L’uomo che cadde sulla Terra, uno dei più noti romanzi dello scrittore statunitense Walter Tevis, negli ultimi anni arrivato anche a un pubblico più generale grazie alla serie tv tratta dal suo La regina degli scacchi.
L’uomo che cadde sulla Terra, invece, diventò famoso anche e soprattutto per la trasposizione cinematografica di Nicolas Roeg e per un interprete d’eccezione nel ruolo del protagonista: David Bowie.
Nel Kentucky degli anni ottante, un uomo misterioso e stravagante sta facendo grossi affari nel ramo della tecnologia. Sembra saperne molto di più di chiunque, quasi arrivasse da un altro pianeta, e forse è così: Newton, così si fa chiamare, è uno dei pochi superstiti del pianeta Anthea, ed è tra gli esseri umani per una missione.
La trama, in breve. Un alieno del pianeta Anthea arriva sulla Terra portandosi dietro le sue conoscenze superiori, il suo corpo profondamente diverso e mutato, la sua mente geniale. Arriva mascherato da uomo, pur se molto alto e magro, angoloso, dai capelli chiarissimi e dagli occhi penetranti. È di una bellezza androgina e assurda. Passa per un uomo strano ed eccentrico, un po’ particolare – ma un uomo, e tanto basta.
Sarà semplice, per lui, diventare ricco: ha brevetti infiniti e spettacolari, conosce invenzioni sconvolgenti. Ma presto si rende conto della bellezza terrestre. Dell’aspetto insolito dei campi, di tutta quella quantità d’acqua. E comprende, soprattutto, di quanta tristezza sia colmo il pianeta Terra. Non gli avevano parlato dell’egoismo, delle torture, dell’avidità, della difficoltà. Della stupidità degli uomini, che lui definisce simili a scimmie o a insetti. Un bicchiere di gin dopo l’altro, Newton (questo il nome che si è scelto) beve per non pensare. Riesce persino ad affezionarsi a due umani, saranno simili ad amici. Ma la Terra, pian piano, lo trasformerà.
C’era una sfumatura di sofferenza nella sua voce
Nessuno meglio di David Bowie avrebbe potuto interpretare la gracilità dell’alieno, il suo non sentirsi mai a casa, la sua ambiguità. Ancora più eccezionale, se si pensa che quella nel film di Roeg fu la sua prima apparizione cinematografica. Lesse il libro di Tevis e non riuscì più a dimenticarlo.
Bowie era un lettore di rara passione e profondità. Una volta, in risposta a un intervistatore, disse che per lui leggere era il gesto perfetto della felicità. I libri hanno ispirato tutto il suo lavoro e le sue tante personalità musicali, erano strumenti per navigare attraverso la propria vita e la propria arte. Esistono innumerevoli foto di Bowie che legge, online si trova la lista dei suoi 100 libri preferiti (approfondita anche nel libro Il book club di David Bowie. I 100 libri che hanno cambiato la vita della leggenda di John O’Connell). Spesso utilizzava tecniche letterarie per i suoi testi, come il cut-up di William S. Burroughs che diede vita all’iconico inizio del brano Moonage Daydream: «I’m an alligator / I’m a mama-papa coming for you / I’m the space invader».
Ha ispirato negli anni centinaia di volumi differenti: dai saggi più classici e dagli estratti di testi critici e di interviste (come Sono l’uomo delle stelle ed Essere ribelli, entrambi editi da il Saggiatore), fino a fumetti e graphic novel (come Bowie. Una biografia di María Hesse e Fran Ruiz o Starman. David Bowie’s Ziggy Stardust year di Reinhard Kleist), vere e proprie agiografie («Generosity». Un’agiografia di David Bowie di Gianluigi Ricuperati) e persino un libro-gioco da colorare e ritagliare (David Bowie play book di Matteo Guarnaccia). Bowie ha, insomma, attraversato il mondo letterario prima come lettore e poi come oggetto della scrittura altrui.
Tra solitudine, eccessi e ambiguità, le atmosfere di Walter Tevis sono rimaste sempre incredibilmente vicine a quelle dell’universo di Bowie, come se nell’arco della loro carriera avessero continuato a ispirarsi a vicenda: fino a un epilogo particolarmente significativo. Sono infatti passati 76 anni dalla nascita di David Bowie, l’8 gennaio 1947, e solo 7 dalla sua morte, il 10 gennaio 2016. Blackstar, il suo ultimo straordinario album, il suo canto del cigno, era stato pubblicato appena due giorni prima, nella data del suo ultimo compleanno. Lazarus, uno dei primi singoli, è un auto-epitaffio lucido e disperato. La sua canzone d’addio.
Il titolo omonimo, Lazarus, era già stato usato da David Bowie per un musical teatrale che debuttò al New York City Theater (e che nel 2023 arriverà anche in Italia): era proprio il seguito, da Bowie immaginato, de L’uomo che cadde sulla Terra di Tevis. Bowie restò infatti così legato al personaggio di Thomas Jerome Newton da scrivere un musical – la prima dello spettacolo fu il 7 dicembre 2015, data nota dell’ultima apparizione pubblica dell’artista – che racconta la sua storia dieci anni dopo gli eventi narrati ne L’uomo che cadde sulla Terra.
In Lazarus, Newton vive ormai quasi in completa solitudine in un appartamento. Passa il suo tempo bevendo e consegnandosi alle visioni dell’alcol per lenire il dolore. Dice di non avere rimpianti o nostalgia, ma non riesce a smettere di pensare a Mary Lou, il grande amore della sua vita. Cerca una salvezza che forse arriverà. Cerca disperatamente di accettare la propria fine.
Newton è più uomo degli uomini. Newton è Bowie. Dall’inizio alla fine, la vita dell’artista avanzò su binari paralleli a quelli dell’alieno, come in un assurdo intersecarsi di realtà e finzione. In fondo sarebbe stato lo stesso se al posto suo ci fosse stato l’antheano, nel video di Lazarus. Newton con una garza sugli occhi, steso morente su un letto, a ricordare, cantando debolmente, le sue «scars that can’t be seen», le cicatrici che non possono essere viste.
Thomas Jerome Newton non è che l’ultimo alter ego di David Bowie. Il più vicino di tutti all’originale.
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