«Era un uomo buono solo disarmato», così — senza le virgole, quasi a restituire con la sintassi una sorridente umanità tutta d’un pezzo — Bianca Stancanelli descrive il suo protagonista nell’incipit della bellissima biografia A testa alta. Don Giuseppe Puglisi: storia di un eroe solitario, scritta dieci anni dopo il suo omicidio, il 15 settembre 1993 — che era anche il giorno del suo compleanno.
Don Pino Puglisi accetta l'incarico di parroco nel quartiere Brancaccio di Palermo e quella scelta gli costa la vita. Una giornalista di "Panorama" studia l'omicidio e ci restituisce un tragico spaccato di una realtà nella morsa di Cosa Nostra.
Il primo prete ammazzato da Cosa Nostra era soprannominato Pino, tutti lo chiamavano “Padre” (o parrinu, in dialetto), allora a volte lui per scherzo si firmava “3P”, tipo fumetto.
Tre anni prima, alla fine di settembre del 1990, era stato nominato parroco nella chiesa di San Gaetano, a Brancaccio, quartiere povero e dominato dalla criminalità organizzata nell’ex area industriale a sud-est di una Palermo devastata dalla guerra di mafia degli anni Ottanta e delusa dalla fine della “primavera” del sindaco Leoluca Orlando.
Don Puglisi ricopre già incarichi pastorali importanti (dirige il centro diocesano per le vocazioni, un core business vaticano), ma non si fa pregare. Per lui è un ritorno alle strade in cui giocava da piccolo. «Siate come bambini», predicava Gesù, e a 53 anni, in effetti, lui è rimasto minuto, esile e soprattutto allegro. Niente tonaca né clergyman, veste in borghese, per quanto, sobriamente, di scuro.
Prende il posto di un prete “rosso”, Rosario Giuè, seguace della “teologia della liberazione” dell’America Latina, che ha chiesto una pausa di riflessione. Don Pino è diverso, ci tiene a rimarcare la propria distanza dalla politica, in sintonia col sentire di tanti (lo scandalo di Tangentopoli esplode di lì a poco, nel febbraio 1992), ma non è meno radicale, anzi. Però è anche molto pragmatico. Sa che in un posto come Brancaccio la parrocchia può essere solo un “segno”, allora vuole interpretare quella funzione nel modo più concreto e incisivo possibile.
Bisogna conoscere, poi capire, infine agire
Bussa a ogni porta, organizza un inedito censimento informale che gli fa incontrare abissi di miseria, maltrattamenti, abbandono. “Spara dritto”, cioè parla chiaro, in pubblico e in privato, anche coi mafiosi. Non cede a compromessi, a volte s’arrabbia al punto che le sue orecchie a sventola diventano viola. Cerca alleati, coinvolge le assistenti sociali e i ragazzi della Fuci, la storica Federazione universitaria cattolica da cui erano usciti personaggi del calibro di Aldo Moro. Poi le suore: fa i salti mortali, accende un mutuo col magro stipendio da insegnante di religione, pur di procurare una casa alle Sorelle dei Poveri, che possono portare sollievo al quartiere.
I mafiosi sono irritati da quei “corpi estranei” che insidiano il loro monopolio, in particolare i ragazzi che — complice il magnetismo di quel prete capace di ascoltare — attirano bambini e adolescenti. La parrocchia fa di tutto per intercettarli e creare spazi dove ricevano cure e attenzione, perché imparino cosa vuol dire essere importanti, ascoltati, amati. Attraverso il gioco, calcio soprattutto, insegna il rispetto delle regole: vince il migliore, non il più forte, chiedere scusa non è una debolezza, ma una prova di coraggio.
Una lezione da recuperare tutta intera, nei giorni in cui, con sciagurata miopia, il “decreto Caivano” del governo si limita a inasprire le pene e proporre il pugno di ferro contro la criminalità giovanile.
A Brancaccio non c’è nemmeno la scuola media (aprirà solo nel 2000), la dispersione scolastica è alle stelle, la mafia è la sola prospettiva concreta di futuro. Il quartiere è un vivaio inesauribile di manodopera a bassissimo costo, ma quel prete contende i bambini alla Cosa Nostra trionfante delle stragi. Per questo bastano appena tre anni perché diventi un nemico da annientare (anche a Cristo, d’altra parte, erano bastati tre anni di predicazione).
A consumare l’esecuzione su mandato dei fratelli Graviano ci sono i futuri collaboratori di giustizia Gaspare Spatuzza (all’epoca latitante, ma a Brancaccio non è un problema) e Salvatore Grigoli, che gli spara alla nuca. Simulano una rapina, Puglisi si gira, sorride e dice: «Me l’aspettavo».
Nel 2013 la Chiesa lo beatifica, primo martire della criminalità organizzata, ma non l’ultimo. Meno di un anno dopo, la camorra ammazza don Peppe Diana (stavolta nel giorno dell’onomastico, san Giuseppe, 19 marzo 1994), un altro che “sparava dritto”: «Per amore del mio popolo non tacerò», aveva gridato dal pulpito, denunciando i boss.
Anche se troppi preti continuano a sottomettersi con processioni e inchini ai criminali “devoti”, nel segno di una religiosità sottomessa e ipocrita che fa a cazzotti col Vangelo. I mafiosi uccidono Puglisi «per rabbia, per paura, per invidia», sintetizza Bianca Stancanelli.
Proprio come Pilato, nel Vangelo di Marco, «sapeva che i capi dei sacerdoti gli avevano consegnato [Gesù] per invidia», perché le scritture la sanno lunga sul potere e cosa lo fa sentire minacciato. A volte basta poco. Il potere conta sulla passività, sul cinismo e sull’inerzia, per prosperare.
Invece, «se ognuno fa qualcosa, si può fare molto», dice Puglisi in una vecchia registrazione video.
Scriviamolo sui muri.
Di
| Chiarelettere, 2022Di
| Rubbettino, 2021Di
| Rubbettino, 2016Di
| Laterza, 2022Di
| Feltrinelli, 2023Di
| Paoline Editoriale Libri, 2007Di
| Di Girolamo, 2015Ti potrebbero interessare
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