Lo avevano soprannominato Duke, il duca, già da ragazzino. Andava in giro, infatti, sempre elegantissimo e aveva modi spontaneamente aristocratici. Per altri, chissà, “Duke” avrebbe potuto rimanere un nomignolo familiare, usato dagli amici; per Edward Kennedy Ellington, nato a Washington il 29 aprile 1899, si rivelò invece talmente azzeccato da diventare, di fatto, l’unico nome con il quale ancora oggi lo ricordiamo.
Il punto è che la musica alla quale aveva voluto dedicarsi, il jazz, nei primi anni del Novecento era vitalissima ma semplice, immediata, quasi istintiva. Puntava tutto sul ritmo e sul carisma dei suoi interpreti – da Louis Armstrong a Benny Goodman – che stregavano gli ascoltatori con i loro assoli, e tanto bastava. A vincere erano l’eccitazione, la frenesia, la vitalità; non certo l’eleganza.
Poi arrivò lui, Duke Ellington, e niente fu più uguale a prima.
Per capirlo non dobbiamo vederlo come il pianista che guida la sua formazione, seduto davanti alla tastiera: lo faceva, certo, ma in fondo, in questo, era uguale a tanti. Quello che va capito è che lui pensava il jazz per la sua orchestra, scriveva brani che non erano semplicemente arrangiati per questa o quella formazione, alla bisogna, ma nascevano addosso ai musicisti, come abiti sartoriali.
Perché il jazz è improvvisazione, d’accordo, ma, come diceva lui stesso, quando ha una struttura forte, ci guadagna: l’estro, la genialità, l’invenzione del singolo funzionano meglio se sono inseriti in un contesto, se esiste una partitura precisa che permette di moltiplicare gli sforzi, se il disegno, il progetto del brano ha già, di per sé, un respiro ampio, sofisticato, levigato con raffinatezza – eccolo, appunto, il Duca.
Il modello, il riferimento, era quello della musica classica, che Ellington conosceva e amava. La cura nella scelta dei timbri, ad esempio, proviene dallo studio delle partiture di fine Ottocento – i particolarissimi impasti dei saxofoni della sua orchestra, per dirne una, probabilmente non sarebbero esistiti se Duke non avesse conosciuto la musica di Brahms o quella di Debussy.
Ma anche l’idea di dar vita a partiture che superassero di gran lunga le abitudini di quegli anni, di comporre cioè lavori che anziché tre minuti ne durassero quindici o venti, arriva dalla frequentazione delle strutture della musica classica; e in un certo modo il Duca ricambierà il favore con le raffinatissime versioni jazz, stese per la sua orchestra, delle suites di brani tratti da Lo schiaccianoci di Cajkovskij o dal Peer Gynt di Grieg, timbricamente lontanissime dagli originali ma, nel contempo, capaci di moltiplicarne la bellezza.
Quando si ascoltano brani estremamente sofisticati come Sophisticated Lady (1933) o In a Sentimental Mood (1935), con linee melodiche e armonie che avrebbero fatto invidia a Ravel, oppure si seguono i percorsi di una lunga suite come Black, Brown and Beige, viene in mente che in fondo Ellington stava compiendo un percorso simmetrico e speculare rispetto a quello tracciato da Gershwin: mentre il suo collega aveva portato il jazz nella musica classica, dove ancora oggi risiedono abitualmente partiture come Rhapsody in Blue (del 1924 – se ne festeggia ora l’anniversario) o An American in Paris o il Concerto in Fa, Duke Ellington portava il respiro della musica classica nel jazz, chiedendo ai propri musicisti di trasformarsi in artisti double–face, capaci di seguire con precisione rigorosa ciò che trovavano scritto sul leggio, come se fossero stati i professori di un’orchestra sinfonica occupata a suonare Beethoven (le diverse registrazioni dei medesimi brani lo dimostrano) ma allo stesso tempo pronti a identificare spazi per l’improvvisazione che potessero increspare, colorare il disegno generale, senza cambiarne i connotati. Geniale, non trovate?
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