Festival della mente, un amarcord per il futuro

C'erano dei maestri piuttosto particolari alle prime edizioni del Festival della Mente di Sarzana.
Alcuni ci hanno lasciato, come Gore Vidal, Bob Noorda, Alessandro Mendini, Paolo Sylos Labini, altri ci guardano dalla loro autorevole vecchiezza come Gianni Vattimo e Adonis; c'erano anche i già noti ma non ancora al culmine della loro carriera, e che oggi sono quasi dei "nonni" sulla ribalta dell'arte e della cultura, come Enrico Rava, Marjane Satrapi, Chuck Palahniuk, Emanuele Trevi;  c'erano i filosofi, i pubblicitari, e c'erano molti artisti, diversi attori, e parecchi scienziati che sarebbero diventati star internazionali come Vittorio Gallese e Giacomo Rizzolatti, che proprio in quegli anni avevano scoperto i neuroni specchio. Altri non erano famosi e non lo sarebbero diventati per il grande pubblico, ma avevano, e hanno ancora, molte cose da dire.

Nel 2003, quando mi venne in mente il concept, un festival sui processi creativi, la headline, dove nascono le idee, e il nome, Festival della Mente, si trattava senz'altro di una scommessa. Ma la creatività andava di moda all'inizio del nuovo millennio non solo perché le scienze cognitive e le neuroscienze se ne stavano interessando: la creatività aveva odore di nuovo, per quanto fosse forse la cosa più vecchia che ci definisce come specie.

L'idea, comunque, non era quella di una celebrazione: l'intenzione era di fare a fette la creatività, vedere di cosa era fatta, al di là delle mode e dell'indeterminatezza del termine. Oliviero Toscani, che fu un ospite delle prime edizioni, ne diede forse la definizione più creativa e più efficace in assoluto. Suonava così: la creatività è un peto, dell'effetto te ne accorgi solo dopo.
Era dissacrante e implacabilmente vera.

La creatività andava sezionata, ma anche mostrata, e per questo gran parte degli spettacoli delle prime edizioni erano fatti ad hoc per il festival, e a volte erano cose piuttosto difficili, come fu il work in progress per un'opera lirica, basato sulle lettere di Aldo Moro dalla prigionia, un'idea di Carlo Boccadoro, Angelo Miotto e Filippo del Corno, che molti anni dopo sarebbe diventato assessore alla cultura di Milano. Sperimentammo molti nuovi format con personaggi assolutamente sconosciuti al grande pubblico: significava prendersi dei bei rischi per un'iniziativa appena agli esordi, ma "creatività" vuol dire sempre assumersi dei rischi, vuol dire lavorare sugli stilemi e non sugli stilismi, come mi insegnò Fabrizio Confalonieri, che inventò per il festival il logo e una grafica pulita ed elegante, rimasta quasi la stessa dopo vent'anni, segno che parla ancora, un atto creativo e non una sua parodia.

C'erano le lezioni frontali, ma a volte una lezione non basta, la sintesi non premia e per questo cercammo di fare divulgazione che non fosse in pillole: con Piergiorgio Odifreddi organizzammo sugli spalti della fortezza di Sarzana, in seconda serata, un trio di lezioni, uno per sera, che raccontavano la vita creativa di grandi scienziati, da Galileo a Einstein. Ci aspettavamo solo un manipolo di irriducibili e facemmo il pieno: il pubblico restava fino a mezzanotte. Ci seguiva anche quando si alzava l'asticella con i workshop: classi a numero chiuso, calepino per prendere appunti, lezioni che duravano ore, che accoglievano le domande e che andavano avanti finché ce n'era bisogno. Finché erano tutti stanchi e soddisfatti. C'erano gli eventi per bambini, ma volevamo stuzzicarli, non metterli in una sorta di kinderheim: con il centro di robotica di Genova cercavamo di spiegare ai bambini le sorprese della robotica vera, non degli ufo-robot. C'erano incontri canonici e c'erano eventi in cui non si sapeva bene cosa sarebbe successo. In tutto si cercava una quota di bellezza, di avventura e di curiosità.

Chiedevamo un impegno ai nostri ospiti, ai relatori e soprattutto al pubblico, questo era il patto. Non sempre ci siamo riusciti bene, ma il pubblico raddoppiava a ogni edizione, e ci perdonava le pecche organizzative. Non so perché al quinto anno si decise di rendere il festival più "popolare", virando verso la psicologia e abbandonando le sperimentazioni a favore di nomi consolidati sulla ribalta mediatica. I tendoni si ingrandirono a dismisura, ma le grandi platee, giocoforza, non possono essere per loro natura il luogo dell'attenzione, che tende a svanire; la curiosità si allenta, il pubblico diventa il contatore del successo e delle ambizioni, caro soprattutto agli sponsor pubblici e privati.
Poi il festival prese un'altra strada sotto il timone di Benedetta Marietti, che ancora lo pilota con sicurezza. Beninteso: i festival sono un bene, parlano alla gente in un modo che né la televisione né internet dovrebbero essere in grado di fare, perché la dimensione specifica dei festival dovrebbe essere la messa in scena, la regia, lo spettacolo dal vivo delle idee.

Anche se i festival non sono mai troppi, anche se sono centinaia in Italia e in tutta Europa, forse proprio per questo si assomigliano un po' tutti. E proprio per questo mi farebbe piacere che il Festival della Mente facesse un pensierino alla sua dimensione originaria, non per riproporla ma per superarla, per evolvere creativamente, per ritrovare quel patto con il pubblico, o per crearne uno nuovo.

 

Quella che vedo necessaria, in risonanza con i primi anni del festival (e di tutti i festival), è una "pedagogia" in senso stretto: dare gli strumenti, trasmettere sapere ed esperienza anche fuori dagli schemi consolidati, per vedere le cose da molti punti di vista differenti tenendosi lontani dalla pedanteria del «mo’ ti spiego»; non è quello. La mente è sorpresa da una buona regia e da tutti quei processi che sono a prima vista etichettati come controintuitivi, ma che una volta smontati i meccanismi, una volta che si hanno gli strumenti ci fanno dire: come ho fatto a non pensarci prima? Sono l'abc di come si legge il mondo e di come potrebbe andare diversamente, per quel che ne sappiamo, e a conti fatti non ne sappiamo abbastanza.

Per questo, di fronte a tante certezze di seconda mano o a cose spacciate per certe, al vibrante narcisismo delle proprie convinzioni che mi sembra un'epidemia ben più letale del Covid, i festival dovrebbero far lavorare la mente in modo "interessante", incoraggiare il pubblico a trasformare la propria mente in un festival, a far parlare Cartesio con una giovane musicista di elettronica, un politico con un matematico, e un genetista con un artista visivo, per esempio; a cogliere le idee mentre stanno nascendo e si travasano in contenitori inaspettati, perché è in quel momento che sono in grado di trasmettere tutto il potenziale creativo.

E di creatività, in questo senso, ce n'è e ce ne sarà sempre bisogno. Perché, come recitava uno slogan creato per il festival, «le buone idee non nascono mai da sole e mai da soli».

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