La redazione segnala

Giò Pomodoro, l’artista capace di dare movimento alla materia

Giò Pomodoro, chi…?  I Gen Z forse non ne avranno mai sentito parlare eppure i ragazzi e le ragazze che frequentano per esempio il campus universitario del Politecnico di Milano alla Bovisa si saranno trovati mille volte immersi in quello che più che un percorso è una vera immersione (22 opere disseminate tra aule, dipartimenti e spazi all’aperto) che raccoglie quarant’anni di lavoro di questo artista. “Merito dell'armonia che c'è tra l'università e la poetica di Giò, che amava sintetizzare, nelle sue sculture, l'architettura, la matematica e la filosofia come ha dichiarato Emilio Mazza, erede e curatore dell’Archivio Giò Pomodoro, in occasione dell’inaugurazione, nel 2011, di quello che è un vero e proprio viaggio tra architettura e scultura.

Ma anche chi non ha più l’età per andare all’università avrà incrociato, almeno una volta, il proprio sguardo con una tra le tantissime opere di Giò Pomodoro installate in piazze e ambienti pubblici, in Italia e all’estero, come Sole per Galileo Galilei (1997) a Firenze, Sole - agli italiani nel mondo del 2001 a Genova o anche a Tel Aviv, davanti all’Università, dove si trova Scala Solare – Omaggio a Keplero (1993). Oppure ancora nelle grandi collezioni dei musei di tutto il mondo, come in una delle monumentali sale della Tate Gallery di Londra, dove campeggia Uno, altrettanto monumentale scultura del 1961 o la Grande Ghibellina in marmo bianco, dalla collezione Nelson Rockefeller.

Come si vede dai nomi di molte sue opere il sole è infatti una delle figure ricorrenti nell’arte di Giò Pomodoro, così come in quella del fratello, Arnaldo Pomodoro, anche lui celebre scultore. Attenzione però a non confonderli. Arnaldo è famoso soprattutto per le gigantesche Sfere e Dischi Solari, per lo più in bronzo, mentre Giò è conosciuto soprattutto per le Superfici in tensione. Ma dopo i comuni inizi presso botteghe di oreficeria e laboratori ad Orciano, in provincia di Pesaro dove sono nati e il trasferimento a Milano in seguito alla morte del padre, i due fratelli, che frequentavano entrambi la Brera degli anni ’50, iniziano a imboccare percorsi diversi, anche se segnati da affinità e somiglianze, in primis naturalmente la scelta della scultura di grandi dimensioni e dell’astrattismo.

Come ha scritto Alberto Crespi per l’Associazione Amici dei Musei di Monza e Brianza: “Alle gigantesche oreficerie di Arnaldo: sfere, coni, colonne, (Giò) contrappone i propri grandi rilievi in bronzo o marmo dalle superfici fluttuanti”

Anche se non è facile, forse, visualizzare immediatamente il suo lavoro, Giò Pomodoro è stato uno dei maggiori scultori astratti a livello internazionale del XX secolo, così famoso da meritarsi addirittura un ‘doodle di Google’ che (oltre ad essere un bellissimo scioglilingua) è un riconoscimento incredibile, come tutti i Gen Z in questo caso sanno benissimo.

Già nel 2011 infatti l’azienda di Mountain View, per ricordare gli 81 anni dalla sua nascita, il 17 novembre del 1930, aveva trasformato il logo della sua home page in una superficie ondulata, liscia, metallica, chiaro omaggio alle sue ricerche sulle superfici in tensione, declinate da Giò Pomodoro in materiali diversi  (marmo, bronzo e anche poliestere) ma sempre con l’intento di cercare di catturare quel fluire continuo della natura, dove “il vuoto coincide con il pieno in un espandersi virtualmente infinito”, come scritto nel catalogo della mostra di Urbino del 2018.

E nel 2002, qualche mese prima della sua morte, Giò Pomodoro era stato insignito, dall’International Sculpture Center’s Board di New York, del Lifetime Achievement Award in Contemporary Sculpture, un premio alla carriera che mai, prima di allora, era stato attribuito a un italiano.

 

Milano cortile del Conservatorio

Il 21 dicembre di quest’anno saranno passati vent’anni anni dalla morte di questo artista, a volte un po’ dimenticato, a volte confuso con il fratello, ma noi lo vogliamo ricordare perché quella di Giò Pomodoro è una scultura  molto distante da  alcuni modi e mode dell’arte contemporanea, dalla spettacolarizzazione, da un’arte fatta di business e di colpi di scena. Il suo era un modo di lavorare che oscillava tra due poli, da una parte la funzione sociale dell’arte e dall’altra la scultura come riflessione filosofica, sull’uomo, sui concetti di tempo e di spazio.

Giò aveva iniziato ad esporre già nel 1955, poco più che ventenne, insieme agli artisti che si ritrovavano intorno alla rivista Il Gesto, artisti che segneranno la ricerca di quegli anni,  Dorazio, Fontana, Novelli, Perilli, Tancredi e Turcato,  poi insieme al fratello aveva partecipato alle prime mostre del gruppo Continuità ma presto  si era staccato  dalle tematiche che riflettevano intorno all’ immediatezza istintiva del gesto e del segno, centrali in quegli anni, e si era orientato verso un’organizzazione, una ‘rappresentazione razionale dei segni’. Da questo percorso interiore, da questo travaglio nascevano così, alla fine degli anni ’50, prima Fluidità Contrapposte e poi le prime Superfici in tensione, chiave di ricerca per comprendere tutto il suo lavoro futuro anche quando, negli anni a venire, si tradurrà in materiali diversi come il marmo, apparentemente impermeabile a qualsiasi idea e concetto di movimento.

 “Si trattava di infrangere la barriera della superficie. Il risultato contestualizzava un’ipotesi di fluidificazione dei piani e degli spigoli. La scultura inverava così l’idea di flusso che stava emergendo secondo varie angolazioni nella cultura visiva… dell’epoca” come scriveva ancora Alberto Crespi.

Nella pratica Giò Pomodoro stendeva dei teli di grandi dimensioni con dei tiranti e poi aggiungeva degli elementi per creare su queste superfici punte, pieghe, avvallamenti, concavità. Da lì passava a fare una gettata in gesso che, trasformandosi in calco, gli permetteva di passare poi alla fusione. Un lavoro di grande sperimentazione e manualità, di infinitesimi movimenti e cambiamenti per “sperimentare il basso e bassissimo rilievo, la scultura come pannello, come superficie, esplorare i confini del territorio plastico, provare a forzare i limiti della scultura.” Così scriveva Marco Meneguzzo nel catalogo che accompagnava la grande mostra antologica organizzata nel 2011 nel Monferrato.

Gli anni ’70 sono stati poi il momento della fascinazione per i numeri e per il loro valore simbolico, il momento del suo avvicinamento alla geometria e alle figure archetipe come il sole appunto, una scultura intesa in senso politico e sociale, una riflessione che a partire da quegli anni si esprime con grandi opere pubbliche come il Piano d’Uso Collettivo, 1974, ad Ales, in provincia di Oristano, dedicato a Gramsci.  È una grande scultura ambientale “densa di elementi scultorei simbolici: la cavea a gradini dove si può accendere il fuoco, rimanda alla società agro pastorale sarda, la fontanella per bere, in basalto nero a forma di ariete, la macina di mulino, la pietra triangolare di calcare, che porta le scritte 'verticale e zenith' e segna il passaggio del sole col moto dell'ombra. Ed ancora le tante scritte scolpite sul pavimento, per lo più in sardo” come recita il sito del Comune. Del 1977 è il Teatro del Sole - 21 giugno, solstizio d'estate, una piazza-fontana dedicata a Goethe Francoforte o ancora Sole, Luna, Albero, il complesso monumentale installato a Monza nel 1982 o come il Luogo dei quattro punti cardinali, un ambiente pubblico pensato, prima che scolpito, a Taino, sul Lago Maggiore dopo una ricerca durata dieci anni dal 1981 al 1991.

Dagli anni ’90 Giò Pomodoro torna ad una riflessione più intima riprendendo il tema delle Superfici in Tensione fino ai Frammenti di Vuoto che chiudono la sua esperienza artistica all’inizio degli anni 2000.

 

Sole Aerospazio '89. Bronzo Di Giò Pomodoro, La Quercia Edizioni d'Arte , 1990

Il vuoto è all’origine del nostro essere scultori, non già il bisogno di innalzare statue

lettera allo scultore Bruce Beasley, 1998

Ma al di là delle forme, degli accidenti della materia, le opere di Pomodoro si pongono sempre in un rapporto attivo, interlocutorio, con chi le osserva e con lo spazio che abitano. Costringono ad aggirarle o a sporgersi, a specchiarsi, quella di Giò Pomodoro è una scultura che può entrare in rapporto con lo spazio in modo differente ma è una scultura che tende ad essere, che vuole essere, sempre, un organismo attivo, palpitante, pulsante, a volte nei riflessi di luce, a volte nel pensiero e nella riflessione che induce. Forse così si capisce, si può capire, quella che a volte può sembrare l’incomprensibilità della scultura astratta contemporanea.

Giò Pomodoro è morto, viva Giò Pomodoro!

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