La redazione segnala

Goffredo Mameli, il poeta patriota e l'Inno d'Italia

Immagine tratta dal libro "Opere di Goffredo Mameli, Edizioni la Biblioteca Digitale, 2014"

Immagine tratta dal libro "Opere di Goffredo Mameli, Edizioni la Biblioteca Digitale, 2014"

La fiction che la Rai manderà in onda lunedì e martedì 13 febbraio, sdogana Goffredo Mameli e lo fa entrare ufficialmente nel Pantheon nazionale. Ma come diranno in molti non c’era già?

Sì e no, verrebbe da rispondere. È probabile che anche questa volta, apparentemente Mameli entri dalla porta principale, in realtà continuerà a essere usato e dunque a essere ingressato in quel pantheon dalla porta di servizio.

Perché? Perché la sua è una figura scomoda e che male si adatta a farne un figurante della patria nazionalista. Certo si può insistere sul fatto che Mameli nelle poesie o nelle composizioni in versi si caratterizzi per un lessico in cui prevalgono il sangue, una idea etinicizzata della nazione, un codice culturale nazionalistico. Tutto vero.

Ma questo di potrebbe dire fa parte del codice culturale in cui la nazione si sostanzia nel corso del XIX secolo dei linguaggi, dei simboli che trova. Poi però se non si vuol fare solo vendita di contenuti simbolici si tratta di vedere come dietro al linguaggio simbolico stiano idee, progetti, preoccupazioni.

E allora la storia sui fa più interessante e meno scontata. Nel caso di Goffredo Mameli non conta molto che cosa abbia celebrato, ma che cosa di lui è rimasto, cosa era agguantabile dal lato del nazionalismo, poi del fascismo e che cosa entrava nel lessico dei democratici.

 

Fratelli d'Italia. Pagine politiche

Goffredo Mameli (Genova 1827-Roma 1849), poeta, patriota e scrittore, è stato tra le figure più importanti del Risorgimento italiano. Scrisse a vent'anni le parole del Canto degli Italiani, poi adottato come inno nazionale nel 1946, e morì due anni dopo per una ferita riportata durante la difesa della Repubblica Romana.

È il senso della lezione sull’inno di Mameli che Roberto Benigni tiene il 17 febbraio 2011 nel corso della LXI edizione del Festival di Sanremo, che non è solo la storia di un successo. Un successo di pubblico prima di tutto. La puntata del 17 febbraio è stata vista in media da 12 milioni 363 mila spettatori pari ad uno share del 50.90%. Venti milioni durante l’esibizione di Roberto Benigni: un italiano su tre, se si sta alla quantità assoluta di popolazione. Due su tre di quelli in quel momento seduti davanti a un video in una qualsiasi casa italiana.

Quella sera, tuttavia, avviene anche qualcosa di diverso: la metamorfosi di Fratelli d’Italia da marcetta allegra a testo che consente l’autocoscienza nazionale.

Un processo di invenzione della tradizione avrebbe detto lo storico Eric J. Hobsbawm. Una dimensione in cui la modalità e le forme della lettura di un testo modificano la sua ricezione proponendo una nuova visione del passato, ma anche una diversa valutazione del futuro. Un fatto che indica un dato specifico: il Paese è privo o, meglio, è orfano, di una religione civile. Condizione che esprime la fisionomia della Seconda Repubblica.

In estrema sintesi ciò che avviene la sera del 17 febbraio 2011 è la denuncia del vuoto civile del paese e la consapevolezza che la chance di futuro si definisce attraverso la riappropriazione di un passato che gli sia funzionale.

Per comprendere allora perché una riflessione su Mameli possa essere utile occorre ripartire da qui. Qui conta non solo e non tanto ciò che Mameli ha scritto. Conta quello che Mameli ha fatto.

Goffredo Mameli, nella sua breve vita, non ha fatto in tempo ad essere una figura di buona per tutte le stagioni. È stato invece, un uomo di una stagione sola - quella dei repubblicani, insurrezionali, fortemente anticlericali, profondamente democratico, contrario al mito nazionalista della patria.

Non aveva nessun tratto da archetipo del giovane ardito (per intenderci non era il primo rappresentante di quella schiera di padri che D’Annunzio avrebbe innalzato come eroi nei giorni dell’impresa di Fiume (e infatti non faceva parte in nessun modo del linguaggio dannunziano) e non era una figura rivendicata dall’arditismo nazionalista (né prima, né durante, né dopo la guerra).

Non era nemmeno quella figura che rappresentava l’idea nazionale di patria e infatti Il canto degli Italiani, quel testo che tutti noi abbiamo in mente con il titolo di Fratelli d’Italia a lungo è stato un testo osteggiato.

Se si considerano i suoi testi scritti non si troverà molto che stia nel mito dell’italiano celebrato dal nazionalismo politico o dall’ “Italiano”. Mameli, piuttosto appartiene a quella area di «ragazzi pericolosi», come li denomina Sergio Luzzatto, che popolano le strade e le barricate del 1848 qua e là in Europa, da Berlino a Palermo, da Parigi a Budapest, da Venezia a Francoforte.

Così a Genova e a Roma, una vicenda quella della Repubblica Romana che ha poco di nazionalista e che vive del la lotta al passato e su cui convergono i rivoluzionari di tutta Europa (tedeschi, svizzeri, ungheresi, francesi, inglesi, ,..) perché quella è la piazza più simbolica della lotta per l’emancipazione contro l’ordine. Anzi meglio: contro la tradizione.

La storia del testo di Fratelli d'Italia

Ma torniamo a Mameli e alla sua vita tormentata, soprattutto dopo morto. Consideriamo appunto Fratelli d’Italia.
Molti pensano che quel testo sia l’inno della Repubblica Italiana, anzi si identifichi con essa. Sbagliato, anche se tutte le pagine, web, compresa quella della Presidenza della Repubblica, indicano la data 14 ottobre 1946, ma solo in via provvisoria. Dietro a quella data la storia di quel testo e del suo uso pubblico è molto tormentata.

Nella seconda metà dell’800 e oltre, «Fratelli d’Italia» rimase molto popolare, anche se osteggiato dai Savoia: per il regno l’inno ufficiale era la «Marcia Reale». Ma già nella guerra libica del 1911-12 le parole di Mameli erano di gran lunga quelle più diffuse fra tutti i canti patriottici vecchi e nuovi. E la stessa cosa accadde durante la Prima Guerra Mondiale.

Dopo la Marcia su Roma assunsero grande importanza i canti fascisti. Quelli risorgimentali furono tollerati fino al 1932, quando il segretario del partito Achille Starace vietò qualunque canto che non facesse riferimento al Duce o alla Rivoluzione fascista. In seguito, nelle cerimonie ufficiali della Repubblica Sociale, però, venne intonato assieme a «Giovinezza». Il governo italiano, dopo l’8 settembre, aveva adottato come inno «La leggenda del Piave». Finita la guerra, il 14 ottobre 1946, il Consiglio dei Ministri acconsentì all’uso «provvisorio» dell’inno di Mameli come inno nazionale, anche se alcuni volevano confermare «La leggenda del Piave», e altri avrebbero preferito «Va’, pensiero».

Quella decisione diventa definitiva molto tempo dopo. Nel 2006 è discusso nella Commissione affari costituzionali del Senato un disegno di legge che prevede l'adozione di un disciplinare circa il testo, la musica e le modalità di esecuzione dell'inno Fratelli d'Italia. Quel testo propone la modifica dell'art.12 della Costituzione italiana (fino ad allora il testo dell’art.12 della Costituzione italiana, entrata in vigore l’1 gennaio 1948, recitava: “la bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali dio eguali dimensioni) con l'aggiunta del comma «L'inno della Repubblica è Fratelli d'Italia».

Questo passaggio ufficialmente è approvato il 4 dicembre 2017 con la legge 2017/181 e entra in vigore il 30 dicembre 2017.
Ovvero l’Italia ha ufficialmente un inno da corca sette anni. Prima Fratelli d’Italia era un «testo sub judice».

Dopo la morte di Mameli

Ora consideriamo un secondo elemento: le traversie del corpo di Mameli dopo la sua morte.

Lungi dall’essere un padre della patria, Mameli è stato a lungo un “clandestino” nella storia italiana: oggetto di più cerimonie funebri, tutte contrassegnate dall’imbarazzo, comunque dall’assenza del potere pubblico, al più accompagnato dai suoi amici in una condizione di solitudine, comunque di “sconfitta”. Con una città, Genova, che nel momento della morte impedisce alla famiglia di prendersi il corpo e sotterrarlo nella sua città.

E una città, Roma, che ospita quel corpo, che non lo vuole, comunque si sente imbarazzata, dalla memoria di una figura, che ricorda l’esperienza della Repubblica Romana del 1849 e i suoi protagonisti come “un “affronto al Papa” fatto proprio nella “Città del Papa”. Che poi Pio IX sia scappato e non espulso conta poco. Nella memoria collettiva conta e pesa il fatto di aver tentato (così come nella Repubblica giacobina del 1798-1799) di costruire una nuova identità, fatta di riti, di simboli, di parole e di gesti verticalmente alternativi a quelli propri della “città del Papa”.

Quello del corpo di Mameli è un lungo viaggio di cui vale la pena di riportare le tappe principali, anche perché costituisce un “manuale” dell’uso politico del Risorgimento su cui è bene riflettere e che ci riguarda da vicino.

Appena morto (6 luglio 1849), Goffredo Mameli viene imbalsamato da Agostino Bertani e poi deposto nel cimitero sotterraneo della chiesa delle Stimmate, a Roma. Nel 1871 le autorità ecclesiastiche autorizzano la riesumazione del corpo, ma il nuovo governo italiano non è favorevole a una cerimonia pubblica. Mazzini è ancora un braccato in Italia (muore sotto falso nome a Pisa nel marzo 1872). Infatti solo dopo la morte di Mazzini si autorizza un funerale pubblico e la sepoltura al cimitero del Verano, a Roma. Il funerale è civile. Qualcuno intona il Canto degli Italiani, cui segue la lettura di alcuni scritti di Mameli. Quelle parole suscitano il disappunto dei rappresentanti del governo presenti e dunque il corpo viene sepolto in un loculo del cimitero, in attesa di un posto dignitoso.

Nel 1891, in occasione della decisione di erigere al Gianicolo un monumento a Giuseppe Garibaldi, la giunta comunale di Roma chiede che sia deciso dal governo ciò che il parlamento aveva deliberato, ovvero che sia edificato un sacrario accanto al monumento dedicato ai caduti per l’unione di Roma all’Italia. Il governo risponde negativamente. Così nel 1889 Alessandro Guiccioli, figlio di Ignazio Guiccioli, ministro delle Finanze della Repubblica Romana del 1849, decide di proporre la costruzione di un monumento funebre al Verano. Il monumento è costruito e inaugurato nel 1891 e il 26 luglio di quell’anno le spoglie di Mameli vengono sepolte lì. Ma il corpo di Mameli crea ancora imbarazzo. In nome dei buoni rapporti con l’Austria, in quell’occasione nessuno esegue il Canto degli Italiani.

Nessuno pensa più a Mameli finché, nel 1941, a guerra iniziata, Mussolini rievoca la morte di Mameli per colpa delle armi francesi. Quindi, in piena guerra, per celebrare l’italianità, Mameli torna di nuovo utile. Viene allora deciso di costruire quel sacrario votato dal parlamento, mai deciso del governo italiano e che era stato al centro delle polemiche settant’anni prima. Così, prima ancora della fine dei lavori, le spoglie di Mameli vengono di nuovo riesumate e trasportate all’Altare della Patria per essere poi collocate, in attesa del termine dei lavori, a San Pietro in Montorio, nel quartiere di Trastevere, poco sopra la fossa nella quale erano stati collocati i resti dei caduti per la Repubblica Romana.

Come molte cose nella storia italiana, niente è più definitivo di una decisione transitoria, e infatti è lì che ancora oggi si trovano ora trasformato quel luogo nel monumento ai caduti della Repubblica Romana, (è il luogo dell’ultima battaglia prima della sconfitta e della resa il 4 luglio 1849).

Topoi letterari e politici

Queste due storie esemplari non sono il risultato di un malinteso.

Nella biografia di Mameli, come tutti i giovani che al bivio fanno scelte radicali, non c’era molto spazio per il compromesso. C’era la celebrazione della sfida alla morte per risorgere, che coinvolge tutti coloro che avvertono il senso di una sfida di resurrezione.

 È un aspetto che Mameli propone nella sua composizione poetica L’Alba (1846) e che ha il suo fondamento nel Foscolo de I sepolcri, ma non solo in quel luogo dell’identità culturale del risorgimento.

Un aspetto che Mameli ripropone in un suo testo dal titolo Guerra e costituente sono termini inseparabili (gennaio 1849) sostenendo che l’idea e il progetto politico della nuova Italia si formano laddove si consumano gli atti di sacrificio.

Quello dei luoghi è un tema fortemente intrecciato con la dimensione delle date del calendario civico. Un aspetto che è emerso con forza nel 2011 in occasione delle celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità,ma che poi non ha trovato un suo profilo culturale.

Anche per questo la struttura della fiction intende appropriarsi di un’eredità che a lungo non ha trovato risposte. Non le ha trovate perché quel luogo storico che è stato il Risorgimento è sempre rimasto conteso tra due territori: O l’appropriazione nazionalistica di una identità che andava celebrata e che cercava spazi di supremazia, o una storia fatta di confronto e di scontro con il nazionalismo che esclude, perché come obiettivo ha il senso di ricostruire un’idea di futuro che non sia solo celebrativo. In questo secondo caso il tema è il confronto con la propria sconfitta non per coltivare il culto del passato o la venerazione delle glorie, ma come patto di futuro.

Riguarda le volontà e la capacità di resistere. C’è stata a lungo una solitudine dei risorgimentali che non voleva dire orgoglio, ma che era l’altra faccia della loro volontà di esserci, di non darla vinta, di fare. E, per questo, di non giacere all’ombra del mito dell’esilio costruito da Foscolo che lo sceglie per poter rimanere fedele al proprio progetto e non scendere a compromessi.

Intorno all’esilio il Foscolo fin dalla sua composizione A Zacinto ha richiamato il senso della irriducibilità, della volontà di non piegarsi. Un’immagine che Cattaneo non ha mancato di sottolineare nel momento più radicale della sua sconfitta politica, quando percepisce la fine della possibilità di invertire il senso di marcia del processo risorgimentale. Questa scena si consuma a Napoli nel settembre 1860. In quelle giornate scrive il suo elogio dell’esilio ritenendolo atto pubblico per il futuro.

Dietro si presenta il tema di non soccombere. Un tema che costituisce parte rilevante della retorica risorgimentale e che ha una lunga storia del comportamento e delle convinzioni degli intellettuali italiani “contro”, anche nella storia dell’Italia unita.

A monte vi è il mito dell’irriducibilità dell’Alfieri (a partire dal suo saggio Sulla Tirannide), che Foscolo eredita e sistematizza nella sua Lettera apologetica, e che ritorna poi nelle considerazioni che Mazzini propone nell’edizione degli scritti foscoliani inediti che pubblica a Londra nel 1844 a cui antepone un saggio che, per molti aspetti, costituisce un topos sia letterario, sia politico.

Un mito che è poi tornato in anni seguenti nella storia italiana, ma modificando statuto e presentandosi attraverso i panni del rifiuto, del disimpegno, della vacanza.

È probabile che quando Benigni nel suo monologo richiama l’idea del sacrificio, della generosità giovanile che tanta parte ha nelle vicende risorgimentali in quel suo monologo, ciò che lo muova sia soprattutto contrapporsi alla figura del fuggitivo per disimpegno più di quella dell’esule come non sottomesso

In quest’ultima figura l’esilio non è allontanamento, ma è un fare i conti preliminari con la sconfitta e soprattutto non è un modo di fuggire alle proprie responsabilità.

Sono, p.e., le parole amare che utilizza Salvemini nell’agosto 1927 sul settimanale La Libertà, organo della Concentrazione antifascista, in un articolo che esce in tre puntate dal titolo L’opera degli emigrati. In quel lungo testo, certamente sofferto, ma asciutto, come era nello stile di Salvemini, a proposito della sconfitta e dell’esilio che ad essa era seguito, pensando prima di tutto a sé e a tutti gli antifascisti che come lui si trovano al margine, scrive:

La vittoria del fascismo non è avvenuta senza una ragione. Sarà stata incapacità intrinseca delle dottrine, saranno state le mancanze degli uomini che sbandierarono quelle dottrine, il fatto sta che tutti i partiti tradizionali si sono rivelati inetti a resistere al fascismo. Mussolini è a Roma, e noi siamo a Parigi, a Londra, a New York, al domicilio coatto. Ora, i partiti politici, come i commercianti, si giudicano in base al successo e all’insuccesso. Chi sviluppa la propria azienda gode fiducia. Chi fallisce perde fiducia. Voi siete dei falliti. Non fatevi illusioni. Tutti, senza eccezioni, siete dei falliti. Certo il successo non deve essere l’unica forma di giudizio. Un commerciante può fare affaroni ed essere un ladro. La impresa fascista ha avuto uno sviluppo prodigioso; eppure noi preferiamo andare in giro per il mondo con le scarpe scalcagnate, piuttosto che essere azionisti di quell’impresa. Ma se il successo non deve essere norma di giudizio morale, l’insuccesso, specialmente se è troppo grave, non può non essere norma di giudizio politico. I partiti politici sono fatti per vincere o per lo meno per dare la speranza di una vittoria, sia pure lontana. Partiti che subiscono disfatte strepitose come quelle che sono toccate ai partiti antifascisti italiani in questi ultimi anni, non possono pretendere alla intangibilità delle loro tavole. E’ ridicolo, dopo quel po’ di botte, di cui abbiamo fatto la ricevuta, trovarci fra i piedi ancora della brava gente, che non ha imparato nulla, che non ha mutato nulla, e che ci ricanta che non c’è nulla da imparare, non c’è nulla da mutare e c’è solamente da ricominciare da capo a biascicare le vecchie giaculatorie e a riprendere le vecchie lotte

In direzione ostinata e contraria

Una condizione che parte dal presupposto del riscatto e che si propone al paese dentro come la voce della coscienza, ma che è difficile non collocare con la condizione vigente in Italia nel 2011. Non si va via perché si è migliori, ma per stabilire una tregua, o ritrovare la forza di ricominciare.

È quanto Carlo Rosselli propone a Nenni nel 1926 quando lo convince a fondare Quarto Stato, l’ultima rivista pubblicata in Italia prima della soppressione di qualsiasi opposizione da parte del fascismo al potere, ma già la prima rivista che si pensa come strumento per il dopo. In quella lettera Rosselli affermava che l’esilio gli sembrava l’approdo ultimo, conseguente alla chiusura di ogni spazio in patria.

Il Mameli che emerge non è lontano da questa condizione. Non c’è nessun archetipo dannunziano, né nessun annuncio di Fiume. Ci sono, invece, le sensazioni, le emozioni, le parole e la mentalità proprie di tutti coloro che sanno di avere di fronte a sé una battaglia dura che testimonia della scelta in «direzione ostinata e contraria» alla «comfort zone» del proprio tempo presente.

Non si viveva poi così bene in Italia? Non ci hanno lasciato cambiare niente. E allora… E allora gli ho detto.. Avete vinto voi, ma almeno non riuscirete a considerarmi vostro complice. Così gli ho detto.. e sono venuto qui

Sono le ultime parole che pronuncia il sergente Lorusso, interpretato da Diego Abatantuono in chiusura di Mediterraneo di Gabriele Salvatores cui segue il distico: «Dedicato a tutti coloro che stanno scappando».
Andarsene appunto non è disimpegnarsi. Invece, è dire non ci sto.
Mameli va in questa direzione, come Salvemini e come Carlo Rosselli. La sua riflessione nasce dalla stessa amarezza del sergente Lorusso. Per questo può parlare anche a noi e per noi, orfani di una religione civile e «a rischio cattura» da parte della nazione in salsa sovranista.

Testi di riferimento

Fratelli d'Italia

Di Goffredo Mameli | Garzanti, 2021

Fratelli d'Italia. Pagine politiche

Di Goffredo Mameli | Feltrinelli, 2010

Su Goffredo Mameli

«L'Italia chiamò». Goffredo Mameli poeta e guerriero

Di Gabriella Airaldi | Salerno Editrice, 2019

Goffredo Mameli. Una vita per l'Italia

Di Massimo Scioscioli | Editori Riuniti Univ. Press, 2011

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