Io abito a New York, e pensavo al laghetto di Central Park, vicino a Central Park South. Chi sa se quando arrivavo a casa l’avrei trovato gelato, mi domandavo, e se era gelato, dove andavano le anitre?
Prima impresa – venuta dieci anni dopo, nel 1961: Einaudi si trova a voler tradurre un libro che negli Stati Uniti ha avuto un impatto sismico sulle nuove generazioni, ma qualcosa, in quel libro, resiste. Tutto, lì, oppone una certa ritrosia a essere tradotto, non in senso letterale, si capisce, ma c’era una faccenda che più di tutte metteva in tensione la vicenda editoriale del libro, ed è il titolo. Einaudi si trova a maneggiare uno degli aspetti più importanti e non sa bene come fare, perché negli Stati Uniti il libro si chiama The catcher in the rye. E tradizionalmente si vuole che significhi “il prenditore nella segale” che però, per noi, non significa proprio un bel niente.
Ma se si traduce così all’ora dov’è l’intraducibile, ci si può legittimamente domandare, ma questo è un caso scuola, perciò vi sarete di sicuro imbattuti in qualche articolo che spiega con dovizia di dettagli perché The catcher in the rye attinge da un immaginario, da una cultura, da un modo di stare al mondo che è, di fatto, impossibile da portare oltre, tradurre, per l’appunto. Il colpo di genio venne al secondo tentativo, in Italia – prima Jacopo Darca provò con Vita da uomo, ungarettiano e poco aderente – perché in Einaudi il libro uscì con un titolo che adesso, anche in noi, spalanca un mondo. E venne fuori Il giovane Holden.
Le anatre di Central Park, le sigarette, gli «e via dicendo» (Adriana Motti, prima traduttrice per la casa editrice dello struzzo, rendeva così gli and all), le 150 volte che compare la parola «cazzo», Phoebe. Tutti elementi di un mondo che è rimasto, dal 1951 a oggi, pieno davvero di un sacco di vita.
Io sono il più fenomenale bugiardo che abbiate mai incontrato in vita vostra
Poi c’era tutto il resto. C’era che la trama si poteva tradurre in una manciata di parole: un sedicenne, Holden Caulfield, viene cacciato dal college e per non tornare a casa dai genitori e dar loro la notizia si mette a bighellonare per New York. Fine. Quindi doveva esserci qualcos’altro, dentro, che rendeva il libro un capolavoro, e questo qualcos’altro è proprio Holden. Alessandro Baricco, qualche tempo fa, raccontava che Holden aveva un modo tutto suo per guardare le cose: percepiva il mondo con una sensibilità esasperata che gli permetteva di – o lo condannava a – vedere ciò che rimane sul fondo, in disparte, seppellito da strati e strati di superficie granulosa e opaca.
C’è anche da dire che il buon vecchio Holden può non stare simpaticissimo, soprattutto all’inizio. Avete presente quando comincia con «Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorrete sapere prima di tutto dove sono nato e com’è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano i miei genitori e compagnia bella prima che arrivassi io, e tutte quelle baggianate alla David Copperfield, ma a me non mi va proprio di parlarne»? Non proprio una persona a modo. Ma Salinger è talmente convinto da questo pivellino da lasciargli decidere pure quest’incipit. E noi? Noi pure glielo lasciamo fare, perché se Holden ci dice che di quella storia non vuole parlare ora, per partito preso, vogliamo sentire cos’ha da dire.
Anche se sappiamo che non possiamo fidarci al cento per cento, no, non solo perché la sua lettura del mondo è talmente intima da non rientrare nelle categorie di vero o falso, ma anche perché lui ce lo dice, di essere un bugiardo. Ha questa cosa di dover mentire su tutto, e forse lo sta facendo anche a noi – e forse anche noi, per capire Holden, dobbiamo metterci nella sua stessa posizione, che è scomoda e ci chiede un bel po’ di attenzione.
Certe volte mi comporto come se fossi molto più vecchio di quanto sono – sul serio – ma la gente non c’è caso che se ne accorga. La gente non si accorge mai di niente
La gente, nonostante tutto, si era accorta di Holden, e questo grazie a Salinger. Lo scrittore aveva scritto un libro diventato in tempi inaspettatamente brevi popolarissimo. E questo, per Salinger, cominciò a essere un problema, e il suo carattere sempre più schivo e riservato alimentarono un mito sull’autore di uno dei più grandi libri della letteratura americana. Si era allontanato da New York, non rilasciava interviste, non condivideva nulla con nessuno se non con la moglie Claire e i due figli. Il giovane Holden fu la sua ultima uscita pubblica – non il suo ultimo libro, ben inteso. Dopodiché non si seppe più nulla.
Prima di sparire dalla scena, Salinger disse in un’intervista a un giornalino scolastico che Il giovane Holden aveva qualche tratto autobiografico. E che era un sollievo poterne parlare. Eppure, a un certo punto, dev’essersi rivelata vera quella frase incredibile nella forma e nella portata che faceva così: «È buffo. Non raccontate mai niente a nessuno. Se lo fate, finisce che sentite la mancanza di tutti». È buffo, in effetti, quanto Salinger ci sia in Holden, e viceversa, e quanto quel libro abbia attecchito nel mondo. Del resto è un mondo, il mondo, raccontato con gli occhi di un ragazzo che non ha voglia di raccontare un bel niente e invece ci ha detto tutto quel che ci serviva sapere.
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